Con Lina Salvi ci siamo dati il cambio di testimone qualche anno fa in occasione della cerimonia conclusiva del premio Sandro Penna. L’odore amaro delle felci avrebbe preso il posto del suo Dialogando con C.S. La scrittura della Salvi, una bella scrittura, si faceva posto con pacatezza, in modo piano ma deciso. Del deserto (Puntoacapo 2017) invece è un libro “in crescendo”, ad una prima parte quasi preparatoria, segue una esplosione di versi, nervosi, ottimi, che tagliano l’occhio in lettura. Al di là di facili letture metaforiche sul titolo, l’opera merita per la vigoria e per mostrare, da subito, non la secchezza della sabbia ma la natura plurioggettuale di un non luogo che diventa geografia umana. La Salvi toglie il freno a mano e si lancia senza bussola in un attraversamento poetico magistrale.
Poi ci sono dei versi cannibali
di cui non riconosco l’origine, la forma,
che sguazzano in un assolo, che spezzano
le gambe ai sogni, terribile
se non sbaglio, lo stare sul punto a capo,
essere sul precipizio.
Un albero portami che ombreggi
una casa, quel tronco caduto
che teme il da farsi, mandami
rami senza foglie, dalla terra
le radici, e quelle parole tonde
dentro i discorsi scambiati nel prato.
L’ultima cosa che abbiamo guardato.
Imparare a vivere a mezz’aria,
non distrarsi, non eludere un sorriso
restare con la mano ferma sulla guancia,
nella sua presenza, restare nell’attimo in cui
sentire il vero, quel preciso mangiare
che il disperso, cosi tanto insegue.