Quando l’anno volge verso la conclusione, arriva a sorpresa un libro, una lettura da tempo attesa. Di Francesco Filia avevo apprezzato tanto sia “La neve”, (Faraeditore 2012), sia “La zona rossa” (Il laboratorio Le edizioni 2015). Queste “Parole per la resa” (CartaCanta 2017) è uno dei migliori testi che ho avuto la fortuna di affrontare negli ultimi 12 mesi. Un libro forte, complesso ( e questo è un punto di forza invasi come siamo dalle tematiche seriali degli autori blasonati), aspro, nervoso e cupo. Cupo è la parola-resa che forse appare e colpisce maggiormente. Diamo però un senso al “cupo”, la significanza che necessita. Filia già nella scelta del titolo offre una parola polisemica “resa” e questa polisemia mi piace trasferirla nel “cupo”. Profondo, oscuro, basso, tenebroso, forse però l’amico Dante ci viene in aiuto : “ Per la tua fame sanza fine cupa”. Ed è questo il senso del cupo : insaziabile. Le parole sono insaziabili e non saziano a loro volta. Filia ha fame, fame di correlare vita e morte, di indagare su ciò che le parole prendono e rendono lasciandoci sfiniti, sconfitti vicendevolmente ma come Tantalo sempre vivi o resuscitati a nuova sfida-patimento. Non è soltanto una resa-reciproca, si legge anche tanta rabbia, una rabbia produttiva non di abbandono e auto commiserevole. Il “tu” a cui il libro è rivolto è un tu “parola-persona” perché molto spesso i ruoli si interscambiano ed ognuno di noi si interpone tra un sé, l’altro e la parola. Dalle 5 sezioni in cui il lavoro è suddiviso alcuni testi.
C’è qualcosa che preme le tempie
le schiaccia, dopo una prima
accennata resistenza, le penetra
come un chiodo che affonda
nel cavo di un mattone e il dolore
si fa preciso, concentrato. Questa,
mi sembra, la chiamino vita.
La pressione dell’aria sul viso
in quest’alba o il freddo contatto
del pavimento sulla guancia, l’infinito
smarrirsi dell’occhio nella fuga
di una mattonella. Diventare
nient’altro che spazio, mera
estensione, variazione minima del male.
Un secondo è durato, abbiamo
provato quel freddo che solo d’agosto
si prova, quel gelo, mentre ti stringevo i polsi e tentavo –
sentivo toccarsi la punta del pollice e del medio,
come un cerchio che si chiude troppo tardi –
disperatamente di amarti,
di nutrirmi della tua luce – da bambino facevo
lo stesso con il polso di mio padre, ma non riuscivo
provavo, tendevo le falangi, ma non riuscivo sentivo solo
gli spigoli delle sue ossa – di nutrirmi,
fame che mi abita la carne,
di ciò che non sarà mio.
Non servirà pregare
non saranno un invocare queste parole,
ma una conseguenza logica, il mostrare, nient’altro, lo sai,
che ogni cosa è se stessa.
Dobbiamo consegnare le parole della resa.
È l’ultimo compito rimastoci, nessun
testamento, ma un relitto di carta
lasciato marcire nell’acqua buia
di queste ore. Vederlo sprofondare
l’inchiostro diluirsi, slabbrarsi le parole
macchia informe sul bianco del tempo.
Ho conosciuto Francesco Filia come presentatore del mio ultimo libro di poesia. Mi ha colpito il suo porsi da critico competente e sensibile quale è, in tutta umiltà con le sue parole profonde e meditate, poi quasi sparire evitando il mio grazie. Non conosco la sua poesia e ringrazio Giuio Maffii di aver postato questi suoi intensi testi. Acquisterò subito questo libro , credo sia una poesia da centellinare e far sedimentare , con tremore.
Grazie Annamaria, è stato un bellissimo incontro con le tue poesie e con te. Spero che i miei testi possano interessarti. Un grande abbraccio.
Grazie a Giulio per le sue parole che colgono il senso profondo del libro e un grazie alla redazione di Carteggi.
La scrittura di Francesco è incisiva, impietosa e seria; non ci sono vezzi, né narcisismi, né cadute modaiole in lei; Francesco segue con coerenza una sua ricerca artistica ed etica e sono felice che Giulio ne parli proprio qui, su Carteggi.
Un caro saluto anche ad Annamaria.
Grazie Antonio, la tua attenzione ai miei testi è per me sempre un riscontro importante.