di Ilaria Grasso
Quando una persona tanto amata chiude la porta di casa per l’ultima volta ciò che appare agli occhi di chi rimane è un passato inflessibile. Gli oggetti nello spazio entrano a far parte di una mappa inconsueta, austera e ostile. Così due bicchieri a scolare nell’acquaio diventano cimeli e quasi non li si vuol più toccare come se il semplice cambiare posizione voglia dire che non saranno più usati nella quotidiana condivisione tipica degli amori stabili. La sedia non è più una sedia. Diventa un fossile di un tempo che non tornerà più. Ecco che la mente e il cuore iniziano ad aver freddo e vanno alla ricerca del tepore familiare di cui hanno bisogno. Nei bei versi di Maria Grazia Calandrone assistiamo al moto produttivo messo in atto dal meccanismo del ricordo che poco poco attenua il senso di vuoto che nell’abbandono si percepisce. La penna poeticamente registra ogni cosa e la trascrive con immagini semplici e altamente evocative come ad esempio nel verso in cui descrive il cuscino su cui è ancora presente l’orma della testa della persona appena andata via. Questo escamotage della dolcezza del ricordo non è solo mera consolazione. Può rappresentare anche un modo dolcissimo e umanissimo per prender tempo e iniziare a elaborare. La poesia non si chiude con odio o risentimento, forse qualche rimpianto ma più di tutto con l’intelligenza di comprendere quanto sia difficile farsi amare dopo essere stati profondamente feriti.
In copertina: Maria Grazia Calandrone fotografata da Dino Ignani.