In Catalunya è passato un anno abbondante (4 ottobre 2017) dal referendum che unilateralmente ha portato a una supposta dichiarazione di indipendenza dalla Spagna. Da allora c’è stata la repressione militare di Rajoy e quella giudiziaria dei giudici, che hanno portato in prigione gran parte dei leader indipendentisti, mentre Puigdemont ha scelto l’esilio (la latitanza, secondo la legge) all’estero. Nuove elezioni del Parlamento hanno confermato la maggioranza, nel Parlamento catalano, dei partiti indipendentisti, che hanno però fatto fatica a trovare un nuovo presidente del Parlamento (Torres) e un nuovo presidente del governo catalano (Torra). Intanto, il governo conservatore di Rajoy, che aveva dato vita alla repressione giuridica e militare di quello che è, prima di tutto, un problema politico, è caduto, e al suo posto c’è un governo socialista guidato da Sanchez che, benché aperto al dialogo, nega quello che sarebbe l’unico vero modo chiaro di risolvere la questione: un referendum legale per la secessione catalana. Non facilita il dialogo con Madrid, inoltre, la detenzione preventiva in prigione, ormai da un anno, dei leader indipendentisti, tra cui Junqueras, capo del partito della Sinistra repubblicana per il quale qualche giorno fa la procura spagnola ha chiesto 25 anni di carcere per il reato di ribellione. Questa imputazione, che prevede l’uso della violenza contro le istituzioni, è considerata eccessiva da molti giuristi, e pure il partito socialista spagnolo l’aveva considerata esagerata. Puigdemont, accusato dello stesso reato, è potuto restare all’estero perchè i paesi europei dove risiede si sono opposti all’estradizione in base al reato di ribellione, considerandolo non proporzionato ai fatti dell’ottobre 2017. Questa è la situazione oggi in Catalunya: uno stallo totale, con leader indipendentisti che, nel silenzio dell’Europa, saranno processati per un reato che potrebbe costare loro fino a 25 anni di carcere, nonostante non abbiano né usato né incitato alla violenza, anzi, hanno solo cercato di pervenire alla scelta tra Repubblica e permanenza in spagna con il mezzo democratico per eccellenza, il referendum. LG
Lunedì [2 ottobre], in occasione del primo anniversario del referendum sull’indipendenza della Catalogna, a Barcellona ci sono state diverse manifestazioni filo-indipendentiste. Le proteste sono state organizzate dalla Piattaforma 1-Ottobre, che riunisce tra gli altri le due principali organizzazioni indipendentiste catalane – l’Assemblea nazionale catalana (ANC) e Òmnium – e i Comitati di difesa della Repubblica (CDR), gruppi nati nel 2017 con l’obiettivo di applicare la dichiarazione di indipendenza “annunciata” dal precedente governo regionale, quello guidato dall’ex presidente Carles Puigdemont. In serata la situazione è diventata piuttosto tesa soprattutto quando alcuni manifestanti radicali hanno tentato di occupare il Parlamento catalano, fermati però dai Mossos d’Esquadra.
Durante tutta la giornata di lunedì ci sono stati cortei e concentramenti in diversi punti della città, con bandiere indipendentiste, striscioni inneggianti alla Repubblica catalana e urne uguali a quelle usate nel referendum tenuto in tutta la Catalogna l’1 ottobre 2017, organizzato dall’allora governo di Puigdemont e considerato illegale dal più importante tribunale spagnolo e dal governo. Da allora in Catalogna le cose sono cambiate poco: i leader indipendentisti arrestati dopo i fatti dell’autunno scorso sono ancora in carcere in attesa del processo, lo scontro con lo stato spagnolo non si è risolto e Puigdemont si trova ancora all’estero, senza possibilità di tornare in Spagna a meno di essere arrestato con l’accusa di ribellione, che prevede fino a 30 anni di carcere.
Gli eventi delle ultime settimane, comunque, hanno mostrato che ci sono almeno due cose nuove da tenere d’occhio: il dialogo avviato tra gli indipendentisti catalani e il governo socialista di Pedro Sánchez, e la posizione sempre più complicata del presidente catalano Quim Torra, considerato un indipendentista radicale ma ora criticato dalle frange più estreme dell’indipendentismo.
Il governo Sánchez, che si è insediato lo scorso giugno dopo la mozione di sfiducia votata dal Parlamento spagnolo contro l’ex primo ministro conservatore Mariano Rajoy, ha parlato da subito dell’importanza di aprire un “dialogo” con gli indipendentisti catalani e ha fatto loro alcune concessioni: per esempio ha autorizzato il trasferimento in Catalogna dei leader indipendentisti incarcerati a Madrid. Le aperture di Sánchez sono considerate da molti un passo importante per provare a normalizzare i rapporti con la leadership catalana, soprattutto dopo gli anni di chiusura del governo Rajoy, anche se finora non hanno portato a progressi significativi: il governo socialista, così come il precedente, ha escluso infatti a priori la possibilità di concedere un referendum sull’indipendenza della Catalogna e si è limitato a parlare solo di una maggiore autonomia, un’eventualità che non soddisfa molte forze indipendentiste.
C’è poi da considerare che negli ultimi mesi, ha scritto il País, all’interno dell’indipendentismo hanno preso forma due diverse correnti: da una parte ci sono quelli che pensano che vada abbassata la tensione con il governo spagnolo, soprattutto gli esponenti di Esquerra Republicana (ERC), principale partito indipendentista di sinistra; dall’altra ci sono quelli che credono che tenere alta la tensione sia l’unica via possibile per riuscire a ottenere qualcosa, in particolare il presidente Torra e l’ex presidente Carles Puigdemont. Le proteste di lunedì hanno mostrato come si sia però creata una specie di cortocircuito in questa seconda fazione: i settori più radicali dell’indipendentismo, quelli che finora avevano avuto soprattutto l’appoggio di Torra, hanno cominciato a chiedere le dimissioni dell’attuale governo, accusato di non fare abbastanza per la nascita della Repubblica catalana. È difficile dire cosa succederà nei prossimi mesi nel campo dell’indipendentismo, e se le pressioni provenienti da diverse parti porteranno Torra e il suo governo a dimettersi.
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Venticinque anni di carcere per l’ex vicepresidente catalano, Oriol Junqueras, 17 per la presidente del parlamento Carme Forcadell, 17 per i leader delle associazioni della società civile indipendentista.Poco meno per gli altri ex membri del governo Puigdemont.
Sono durissime le richieste della procura generale spagnola contro i politici catalani, colpevoli, secondo i giudici, a vario titolo di aver organizzato una ribellione violenta, con il fine di dichiarare la secessione,oltre che di sedizione e malversazione (per aver utilizzato fondi pubblici nell’organizzazione del referendum considerato illegale). Quello dell’ottobre scorso, iniziato con il referendum proibito e culminato nella dichiarazione di indipendenza del parlamento catalano, è stato per i giudici di Madrid una sorta di colpo di Stato. Il teorema del Tribunale Supremo lascia perplessi molti i giuristi ed è stato respinto dalla giustizia tedesca, belga e scozzese, allontana. Anche il governo spagnolo è in forte imbarazzo, in questo clima, infatti, è difficile portare avanti ogni tentativo di dialogo con i partiti indipendentisti (fondamentali per la maggioranza).
Tensione altissima
E non è un caso che il presidente della Generalitat Quim Torra e quello del parlamento Roger Torrent accusino direttamente il premier Pedro Sánchez: «E’ complice della repressione e del sentimento di vendetta della procura». L’esecutivo socialista, con una mossa in extremis, attraverso l’avvocatura dello Stato ha derubricato il reato più grave, quello di ribellione, chiedendo pene più basse per gli imputati. Sia il premier Sanchez, sia altri esponenti del governo hanno lasciato intendere nei giorni scorsi che l’accusa di ribellione non si configura nel caso degli indipendentisti, ma la “Fiscalia” generale non ha tenuto conto di queste interpretazioni.
Nella lista dei prossimi imputati non compare Carles Puigdemont, visto che l’ex presidente è all’estero da un anno e il tribunale supremo spagnolo si è visto respingere la richiesta di estradizione dai colleghi tedeschi (e belgi). Dalla sua residenza di Waterloo Puigdemont chiede aiuto alla Ue: «La voce europea contro gli abusi dello Stato spagnolo è più necessaria che mai».
Il processo inizierà nei primi mesi del 2019 e si preannuncia come un momento di sicura tensione tra Barcellona e Madrid, dove si svolgeranno le udienze. Da QUI
Vogliamo la Catalogna Repubblica indipendente e vogliamo il riconoscimento internazionale». A un anno dal referendum sulla secessione che ha segnato la rottura definitiva tra Barcellona e Madrid, l’ex governatore catalano, Carles Puigdemont, rilancia la sfida, da Bruxelles, dove è fuggito per evitare il carcere, inseguito dall’accusa di ribellione. Il suo tentativo di «portare la questione catalana al centro dell’Europa» non ha tuttavia portato risultati: il fronte indipendentista appare diviso e non è mai riuscito a trovare appoggi internazionali. Mentre l’economia catalana e quella spagnola hanno superato la crisi politica senza troppi danni: «Hanno resistito alle crescenti tensioni politiche – dice Angel Talavera, di Oxford Economics – soffrendo solo un rallentamento molto graduale, registrato del resto anche nelle altre economie europee, e dovrebbero riuscire a concludere un altro anno di crescita robusta».
Si è dimostrata infondata la paura che l’instabilità politica potesse colpire duramente un’economia come quella catalana da 220 miliardi di euro (pari a un quinto del Pil nazionale) fino a minacciare il contagio in Spagna e in Europa: il massimo delle tensioni ha coinciso con un momentaneo calo dei consumi delle famiglie e nel turismo (dovuto anche agli attacchi terroristici sulla Rambla dell’agosto del 2017), ma l’impatto è stato comunque moderato e di breve durata: il Pil catalano è cresciuto del 3,3% nel 2017 e si è mantenuto sul +0,7% congiunturale anche nei primi due trimestri del 2018. Superando sempre la Spagna.
L’economia catalana si è invece ripresa rapidamente e «anche i mercati finanziari – continua Talavera – hanno largamente ignorato le mosse dei nazionalisti catalani: una crisi politica, con implicazioni rischiose per l’intera Europa, è stata così ridotta a una questione interna, tutta spagnola. Inoltre, gli indici di fiducia e le previsioni di investimento mostrano che le imprese non hanno intenzione di abbandonare la Catalogna».
Resta da trovare una soluzione alla crisi politica. Da Madrid il premier socialista Pedro Sanchez si è dimostrato molto più morbido di Rajoy eha proposto a Barcellona di votare un nuovo Statuto regionale con maggiore autonomia, opponendosi però a ogni deriva secessionista. A Barcellona, il nuovo presidente della Generalitat, Quim Torra, un fedelissimo di Puigdemont tra i conservatori e nazionalisti catalani, ha insistito invece anche ieri sulla secessione: «Non dobbiamo arrenderci, andate avanti», ha detto rivolgendosi alle decine di migliaia di cittadini scesi nelle piazze con le bandiere rosse e gialle. Più cauto Oriol Junqueras, il leader della Sinistra repubblicana, ed ex numero due della Generalitat, in carcere da un anno in attesa di giudizio: «Sanchez deve dimostrare il suo valore, non vedo altra soluzione che un referendum concordato con Madrid», ha detto.
«Sembra che i leader secessionisti non abbiano una strategia di breve e nemmeno di lungo periodo. Stanno soffrendo ancora i postumi della sbornia del referendum», dice Oriol Bartomeus, politologo e docente di Scienze politiche all’Università autonoma di Barcellona. «Ma una condanna per i leader catalani come Junqueras potrebbe dare nuova e insperata forza e nuovo consenso alla causa indipendentista».
A un anno dal referendum, la crisi istituzionale senza precedenti tra Barcellona e Madrid si è trasformata in uno scontro a bassa intensità che forse durerà a lungo e potrà avere ulteriori fiammate, ma che resterà circoscritto alla politica spagnola, e difficilmente avrà significative conseguenze sull’economia.
Da Il Sole 24 Ore