ANAMORFICHE, di Danilo Mandolini
Scriveva Alfredo Giuliani (Il Verri, 1962, 3) che la poesia non è che l’estremo tentativo di conferire uno stile all’insensatezza del “ contenuto” quotidiano. La poesia non è una forma di conoscenza, ma una forma di contatto. La poesia è detta per agire.
L’ultimo libro di Danilo Mandolini, Anamorfiche (Arcipelago Itaca, 2018), uscito quest’estate nella collana Versanti, è stato scritto per agire, per smuovere terreni, per aprire varchi, per mostrare cosa si nasconde al di là dell’esibito. Nove foto, dalla texture prevalentemente urbana, si accompagnano a un’ampia selezione di testi composti tra l’inizio del 2012 e la fine del 2016.
Nel titolo, come si legge in una nota finale dello stesso autore, c’è un rimando alla tecnica della ‘anamorfosi’ che ‘nelle arti figurative è la rappresentazione di una scena in deformazione prospettica; per far sì che la visione corretta della stessa possa avvenire solo da un punto di osservazione diverso da quello frontale’. Sempre nella nota finale si legge che la scelta del suddetto titolo vuole contribuire a evidenziare la convinzione, forte in chi scrive, che tutti gli eventi che determinano la realtà hanno un numero infinito di possibili interpretazioni, di minime e minimali componenti e sfaccettature – mai tutte completamente percepibili (…).
Da Anassimandro, a Cantor, passando per Aristotele: il problema della infinitezza delle variabili è discorso antico. E antica è anche l’origine dell’anamorfosi (dal greco, ἀναμόρϕωσις «riformazione», der. di ἀναμορϕόω – formare di nuovo), così come lo sono i versi di Mandolini.
Jurgis Baltrušaitis, in Anamorfosi o Thaumaturgus opticus (Adelphi, 1955) attribuisce a Leonardo da Vinci le anamorfosi più risalenti nel tempo di cui si abbia notizia, due disegni allungati (il viso di un bambino e un occhio) all’interno del Codice atlantico.
Nel cinquecento le immagini anamorfiche cominciarono ad avere maggiore diffusione ma è solo nel seicento che l’anamorfosi trova una sua consacrazione individuando una specie di deprivazione ottica fondata sui giochi di riflessione e prospettiva. Si trattava per lo più di immagini distorte, mostruose e indecifrabili che, se viste da una certa angolazione dello spazio o riflesse con accorgimenti vari, si ricomponevano, si rettificavano, svelando figure a prima vista non percepibili.
La conoscenza dei procedimenti per costruire quelle immagini fu a lungo trasmessa come dottrina magica e segreta, e, la tecnica doveva rispondere almeno inizialmente, a un bisogno filosofico e teologico dell’uomo: la possibilità di vedere in scorcio, al di là degli inganni dei sensi, la verità di Dio.
Solo più tardi, nel settecento e nell’ottocento, le figure cominciarono a essere deformate per andare alla ricerca di una curiosità meravigliosa. Nell’Encyclopédie del 1751, Diderot e D’Alambert definiscono l’anamorfosi come la proiezione mostruosa o la rappresentazione sfigurata di un’immagine eseguita su un piano che da un certo punto di vista appare regolare e fatta con proporzioni giuste.
Mandolini in questo suo ultimo lavoro recupera la funzione più primitiva e alta dell’anamorfosi sebbene ad una prima lettura nulla appaia mostruoso, sfigurato, fuori fuoco.
Il libro si compone di due sezioni piuttosto corpose: I) Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi e II) Altre psichedelie. Ogni sezione è al suo interno tripartita e la scelta non sembra essere casuale: il tre è il simbolo della mediazione e della conciliazione che supera l’antagonismo, tre sono gli atti dell’esistenza (nascita, vita e morte), tre sono ancora i tipi di universo (materiale, astrale, spirituale).
In ognuna delle tripartizioni sono i sensi a ricoprire un ruolo centrale: su tutti, l’udito (rumori, voci, suoni, silenzi) e la vista (luce).
Confluiscono nella prima sezione: Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi – Uno; Psichedelie dei silenzi e Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi – Due; e nella seconda sezione: Crocivia – (quindici blasfemie in loop); Offertorio speciale – (nove bizzarie impoetiche); Dell’esistenza della luce – (o della luce dell’esistere).
Attraverso questa complessa e raffinata architettura l’autore sembra volerci suggerire che è necessario guardare la realtà di scorcio, quasi in stato di alterazione, per coglierne l’essenza: i sensi possiedono un’innegabile forza ingannatoria da cui bisogna difendersi. La realtà è una semplice illusione – ci dice Mandolini citando Einstein – sebbene molto persistente.
Ed ecco allora che, a lettura ultimata, il quadro si fa più chiaro e anche le immagini più semplici e nitide attinte dal quotidiano si rivelano nella loro grottesca mostruosità, nel loro essere fuori fuoco (sono minimi/ colpi di nulla,/ colpi di niente (come semplici colpi di tosse)./ Irregolari, brevi/ forse trascurabili…/ Certamente in lontananza).
La parola Psichedelia con la quale cominciano entrambe le sezioni non nasconde poi l’urgenza di un atto di spoliazione, di allargamento della coscienza, di distorsione delle percezioni uditive e visive per arrivare alla fonte reale del vero (il vuoto/ non si vede ma/ spesso si sente; il risveglio è l’avvio/ d’una più complessa composizione/ di suoni differenti/ che solcano il giorno; ma tutto ciò che si vede è forse vero?; aspiro a conoscere a fondo/ fino in fondo, l’essenza ultima e vera/ d’ogni stupore; luce che si fa strato, specchio/ che altro barlume diventa; di questo sussistere mite/che puntuale m’imprigiona io/ ancora m’ invaghisco; non sono voci, né singole parole).
Nella seconda sezione, in particolare in Crocevia – (quindici blasfemie in loop), anche il discorso teologico si fa urgente. Nell’intento di rappresentare un ipotetico dialogo degli uomini con il divino viene riprodotto una sorta di percorso delle stazioni della via crucis; percorso che ne Dell’esistenza della luce – (o della luce dell’esistere) trova infine una sua risoluzione almeno formale.
I versi di Mandolini sono precisi, netti, taglienti. Sono versi che nascono dalle tenebre, dalle ferite di cui ancora portano impressi i solchi ma vanno alla ricerca di una luce che sappia andare oltre le fenditure senza posa e voragini infinite. Sono versi che chiedono una redenzione.
Recuperando Alfredo Giuliani e il suo pensiero: una frase di prosa inerte resta quello che è, una frase; mentre una frase poetica agisce sul lettore come una carica di inerzia.
Esattamente questo accade a chi legge Anamorfiche: il lettore diventa parte di un discorso, viene chiamato in causa come essere pensante, come contraddittore necessario, è esortato a esercitare il suo metabolismo critico, è chiamato a portare sulle sue spalle – al pari dell’autore – il fardello dell’incompiutezza dei giorni, al pari dell’autore è chiamato a ricercare una via di fuga e chissà che non sia proprio lui a trovarla per primo.
da Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi – Uno
*
Il vuoto
non si vede ma spesso si sente.
Il vuoto
ha più voci ma
è trasparente.
*
backstage #1
Alla fine, giocando spesso con noi,
anche lui cominciò a credere che
tutti i pomeriggi avevano
una corteccia
(scura, sempre la stessa)
che di sé viveva, che
al sole cambiava colore e che
pronta si attivava
(un lieve ronzio la frenesia)
per intercettare e inseguire
le ombre tutt’intorno
che impreviste arrivavano e
ritornavano.
È così!
È cogliendo e osservando
questa minima dinamica
che si può vedere il tempo
nel lampo breve in cui atteso giunge
e oltre, poi,
di nuovo,
svanisce
(del resto,
è proprio avvistando ombre
sconosciute che ripassano
davanti alla stessa stella
che gli astronomi moderni
individuano altri
discosti mondi
e universi)
*
L’esistenza ferisce con ferite che sono
ombre vocianti di soldati ammassati al fronte
che più non torneranno o che, anche se torneranno,
mai li incontreremo.
da Psichedelie dei silenzi
*
[aspiro a conoscere a fondo, fino in fondo,
l’essenza ultima e vera d’ogni stupore.
Dove dimora, dove si sofferma, verso dove, o chi, o cosa
si muove, l’eco che fa ‒
se ne fa, se s’ascolta ‒
dileguandosi.
(che pace, però, qui)]
*
Il cielo è reciso
e basso
davanti allo sguardo.
Due palazzi vicini
Quasi si toccano coi tetti; d’improvviso aprono
un varco senza voce.
Un gruppo di bambini passa.
Mi sfiorano correndo.
Con i volti sospesi
ridono
senza ridere.
Conducono la brezza.
*
Non fa alcun rumore e poi nemmeno si vede il filo della ragnatela che spezzo (quasi senza accorgermene,
la fronte un po’ china in avanti) oltrepassando la soglia di casa, uscendo e celebrando ancora ‒
è il rituale di ogni mattino ‒ come una debolezza che sembra
tregua annunciata e provvisoria, quiete, bozza di armistizio (concordia imprevista)
tra ciò che ascolterò
e ciò che scorgerò sopravvivendo nelle pieghe immateriali,
nelle increspature che non vedo ‒
ora, qui ‒
degli attimi a venire.
da Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi – Due
*
Non sono voci
né singole parole.
Sono minimi colpi di nulla, colpi di niente (come semplici colpi di tosse).
Irregolari, brevi, forse trascurabili…
Certamente in lontananza.
*
Sembra essere, questa, la routine ricorrente:
qualche minuto la mattina, qualche altro la sera
(sempre di fronte allo specchio)
e poi, per il resto del tempo ‒
per il tempo che resta da creare e cancellare nell’officina quotidiana
delle stagioni di ognuno ‒ sono solo altri occhi che,
vicini o lontani,
ci guardano muoverci,
ci osservano esistere
col brusio in sottofondo e senza saperlo.
da Crocivia – (quindici blasfemie in loop)
*
3.
[parlaci,
parlaci come si parla a chi è senza sguardo,
come si parla a chi, per scelta, rinuncia al proprio guardare; parlaci e svelaci ‒ per te non è difficile ‒
di quando ci rivedremo, di quando rivedremo la sostanza prima
della misura che la materia scalfisce,
che il divenire lacera nella sorte,
che simmetrie genera e che
di strutture in prospettiva infine fa (in-av-ver-ti-ta-men-te)
altri corpi come i nostri:
senza gravità, senza equilibrio alcuno]
da Dell’esistenza della luce – (o della luce dell’esistere)
*
La linea dell’orizzonte è il mare.
Ripido e agitato, qui; piatto e immobile, laggiù.
Poco più sotto si staglia, anch’essa ferma, la linea vicina e bassa tracciata da un muretto.
«Girati!» fa una voce di donna alle mie spalle.
«Guarda oltre quel tetto chiaro».
Mi volto. Già lei mi si offre di schiena, il braccio destro teso, l’indice alzato.
«Lo vedi? Lo vedi l’ulivo solitario in cima a quel dosso? Un po’ più a sinistra, segui la mano; ecco…
Lo sai che è proprio lì, in quel punto preciso, che stasera il sole, lento, cadrà?»
Superbe! Entrambi: il testo oggetto e il testo soggetto, molto vicini. Molto bravi! MPia Quintavalla