Quanto sembra separarci, e quanto unirci, rispetto alle poesie d’amore e di lotta – titolo peraltro azzeccatissimo – dell’antologia poetica di Audre Lorde pubblicata quest’anno da Le Lettere!
È una distanza, e insieme una vicinanza – The Marvelous Arithmetics of Distance (1993) è del resto il titolo dell’ultima opera antologizzata di Audre Lorde – che è il caso di percorrere, non foss’altro che per approfondire gli stessi termini chiamati in causa dal titolo generale, “amore” e “lotta”, che non sembrano più essere oggetto di ricerca, né godere di stima, nel vocabolario poetico italiano.
(Uso quest’ultima espressione, “vocabolario poetico italiano” non a caso, perché se è vero che “amore” e “lotta” sono spesso preda di quel “poetese” a suo tempo giustamente scomunicato, questo non dà automaticamente ragione al linguaggio dell’apatia o a quello del nichilismo, ugualmente inclini alla sclerotizzazione).
Detto questo, è però subito tempo di captatio benevolentiae: non si tratta di insistere su certi limiti prospettici del dibattito poetico italiano, sempre rivolto verso il proprio ombelico – insistenza che, indirettamente o meno, ne aumenterebbe i peraltro già marcati tratti di provincialismo – bensì di predisporsi al confronto con un’estetica diversa. E diversa per ragioni storicamente e geograficamente situate (Audre Lorde è nata a New York nel 1934 da una famiglia di origini grenadine e lì è deceduta, nel 1992), più che per un possibile principio identitario.
Affrontare la lettura della prima antologia poetica in traduzione italiana di Audre Lorde è dunque un esercizio di allontanamento, straniamento, ma poi anche di un possibile ritorno verso le questioni che possono, probabilmente e spesso devono, esserci più care. Come scriveva Nadia Agustoni all’epoca della pubblicazione della traduzione italiana di quella che Liana Borghi ha definito la “auto-bio-mito-grafia” di Audre Lorde, ossia Zami (ETS, 2014): ‘Razzismo e sessismo pervadono in modo totale la vita di chi li subisce, devastando psiche e affetti famigliari su cui si sarebbe tentati di non dire niente e così fanno in tante/i, per concentrarsi solo sull’aspetto della discriminazione pubblica’. La scrittura poetica non può che recare i segni di questa pervasività e per le poesie di Audre Lorde vale quello che Agustoni, ancora una volta, notava a proposito di Zami: ‘Audre Lorde pondera e analizza le molte componenti del sé e i modi in cui si declinano, così anche il suo non acconsentire ad essere definita “a senso unico” la rende un’outsider; posizione sempre difficile, ma quasi insostenibile negli anni 50 e 60, tempi in cui l’appartenere a un gruppo identitario era garanzia di protezione e sopravvivenza’.
Sorella outsider, più precisamente, come recita il titolo dell’altro libro di Audre Lorde tradotto in Italia, ovvero i suoi scritti politici, a cura di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida (Il Dito e la Luna, 2014). Definizione quasi ossimorica, questa, che però riesce a contemperare le pratiche di “sorellanza” sulla quale hanno insistito e insistono i posizionamenti femministi del secondo Novecento con una consapevolezza della marginalità e liminalità di ognuna di queste esperienze, sia a livello collettivo che individuale; equilibrio, naturalmente, che si può leggere in senso inverso, come pratica di solidarietà che può intervenire attivamente anche per le esperienze marginali e liminali.
Nel caso specifico di Audre Lorde, questo si traduce nell’esplicita rivendicazione di un’identità ‘Nera, Lesbica, Madre, Guerriera, Poeta’ (come ricorda Loredana Magazzeni nella sua introduzione, p. 7), da accostare a un titolo come Between Our Selves (Tra noi, 1976), che rompe l’unità di ourselves (“noi”) facendo emergere la necessità di un approccio intersezionale critico, nonché autocritico, anche all’interno della propria posizione – secondo un itinerario di riflessione ripercorso in tutta la sua complessità e densità da Rita Monticelli nella bella postfazione al libro.
Come ha ricordato Alessandra Pigliaru nella sua recensione per il manifesto, ‘è appunto la poesia, che per le donne «non è un lusso» – come scrive la stessa Lorde in un breve saggio del 1977, anch’esso contenuto in Sorella Outsider – il luogo di elezione in cui «la casa delle differenze» si sgrana nel sentire che tiene in vita. Un’anatomia patita e regale, liberata dai segni del disprezzo, dalla vergogna e quindi dell’oppressione da parte di un mondo che spesso l’ha rifiutata e l’avrebbe voluta spingere nello scantinato razzista del congedo; la carne di cui parla sovente Audre Lorde è anzitutto il suo corpo di cui non ha paura mai, neppure quando ne deve raccontare lo sfinimento. Lo attraversa, lo vede da fuori e poi da dentro nell’altra grande scoperta che ha segnato la sua vita: quella dell’amore, mai separato dalla sessualità. «Dalla mia carne affamata / dalla mia bocca esperta / esce la forma che sto cercando / a ragione»; questa insaziabile oralità, tratta da “In una notte di luna piena” contenuta nella raccolta Cables to rage del 1970, segue «labbra rapide come uccellini», tra le cosce «il dolce acuto gusto del lime», ricamando un’«esperienza della pelle». Sono sconfinamenti di gabbie identitarie che si possono rintracciare anche in altri suoi versi, un attaccamento sensuale che, per irriducibilità, si riconosce anche in alcune pagine di Monique Wittig o Gloria Anzaldúa’.
Amore e lotta sono dunque intrecciate, nella poesia di Audre Lorde perché incistate nell’esperienza carnale e della carne, ossia qualcosa che riesce a travalicare la “poesia del corpo”, divenuta talvolta cliché, poiché è una ricerca delle sue radici profonde e delle sue ragioni ultime. Radici, e ragioni, che affondano ad esempio nell’esperienza plurisecolare dell’oppressione schiavista, negli Stati Uniti, come si può leggere in uno dei passaggi più luminosi della raccolta, “Who Said It Was Simple” (“Chi ha detto che era facile”, da From A Land Where Other People Live, del 1973): ‘There are so many roots to the tree of anger / that sometimes the branches shatter / before they bear’ (p. 44).
La rievocazione dei linciaggi e delle impiccagioni che costellano la storia della schiavitù, prolungandosi anche nella storia degli Stati Uniti post-abolizione, è qui legata a una particolare visione ideologica e politica dell’autrice della rabbia individuale e sociale che questa storia di oppressione ha portato e porta con sé. Si tratta di un inserto quasi sapienziale, che fa da contraltare ad altri passaggi, più “sermoneggianti”, della poesia di Lorde (i quali, peraltro, devono essere letti prima di tutto nell’ottica di un’esperienza storicamente situata, come s’è detto, e dunque figlia delle retoriche emancipazioniste di Martin Luther King: devo quest’annotazione a Loredana Magazzeni, durante il fortunato incontro di presentazione del libro alla Libreria La Confraternita dell’Uva, a Bologna, lo scorso 20 novembre).
In traduzione, i versi appena citati portano anche ad un’ulteriore riflessione. ‘Ha così tante radici l’albero della rabbia / che a volte i rami si spezzano / prima di dare i frutti’ (p. 45): come non sentire in queste parole l’eco di quella Strange Fruit di Billie Holiday che porta, nella musica e nella parola, la memoria di quei linciaggi e delle impiccagioni?
Questo sembra essere uno dei non rari casi in cui la traduzione poetica guadagna, invece di perdere qualcosa. È anche un piccolo segno della fortunata traduzione del presente volume da parte del collettivo WIT – Women in Translation: Maria Micaela Coppola, Grazia Dicanio, Margherita Giacobino, Loredana Magazzeni, Margherita ‘Migi Sean’ Pecoraro, Maria Luisa Vezzali e Anna Zani. Si tratta di un’operazione collettiva, cui si deve anche la scelta antologica alla base del volume, che ha il pregio di sostituire il narcisismo del traduttore – talvolta pari a quello dell’autore – con un’azione, insieme culturale e politica, che ha carattere solidale, senza per questo obliterare la responsabilità individuale di ciascuna traduzione: di ogni testo, tradotto individualmente e revisionato collettivamente, viene infatti indicata la traduttrice di riferimento (pp. 21-22).
È questo, in fondo, il principale segno di un amore e di una lotta che continuano a riprodursi in forme sempre nuove.