“LE COSE SONO DUE”
di Francesco Targhetta
(Valigie Rosse, 2014)
Decifrare il primo passo sull’asfalto, ovvero decifrare l’inciferato: questa la prima grave occupazione del mattino, quando capisci che sei costola friabile degli avvenimenti, e tutto ciò che tocchi minaccia logoramenti invisibili, una sequela di crolli frontali − i muri dei palazzi come le stanchezze fatiscenti di ogni fessura incontrata nelle facce di chi passa. La misura della tua adesione alla vita è atto riparativo: mente, soda mentalità che a ogni tempesta di fiato si stacca in frammenti minuscoli e si deposita sull’agente minimo, sulla targa condominiale e sui pulsanti cromati, il piombo dei campanelli. Tra tutte le cose spietatamente appese qua e là, decretarne una, escluderla dal vuoto del nome, imporle l’isolamento del tuo sguardo, il tuo isolamento dello sguardo, una coperta ingrommata di luce, una lampada di naufragio, che non dondola, è solo storta, e punta da un’altra parte rispetto al solito.
«Lo vuoi un panino al prosciutto?»
Che all’estraneità non vi sia rimedio: è questa la truffa, astrusa nell’innocuo “sì” che mormori, un sì non distratto, ma pieno e consapevole che le cose sono due e tu sei uno: un colpo di tosse, un macigno libero in mezzo alla stanza.
da Uno:
8.
L’invito al pranzo della domenica
ormai è implicito, e persino si è esteso,
da un po’, agli altri giorni randagi
che spargono il livido inverno:
“la chiave”, mi dici, “ce l’hai”.
Provare ad arginare la solitudine
adulta di chi, un tempo,
si era pensato alla vita:
chi, dunque, ha sbagliato tra noi?