Non è probabilmente un caso, né un refuso (trascurabile, di per sé), il fatto che a pagina 15 di Archivio privato di Simone Marcelli, alle Porsche Cayenne manchi per due volte, nel giro di due versi, la lettera S: “i molti transfrontalieri / possiedono delle gran belle vetture, / per esempio Porche Cayenne bianche (targa GE), molte di queste / Porche Cayenne, ma tante proprio, e quasi non ci sarebbe bisogno / delle automobili, vista l’efficienza del trasporto pubblico”.
Non è nemmeno una dimenticanza che si può imputare all’autore, che è certamente francofono, per stare alla vicenda autobiografica che in qualche modo (e più per sottrazione, diffrazione o infrazione, che non secondo una narrazione lineare) si delinea, in Archivio privato, tra la provincia di Viterbo, Ginevra e altri luoghi.
Più probabile, ecco, che si tratti di un lapsus: conservato e dunque rimarcato in quanto tale, da un lato per segnalare proprio le porche Cayenne, con un sapore di invettiva che poi si perde nella (im)prevedibile grazia del gioco linguistico senz’arrivare a farsi requisitoria populista, dall’altro per ribadire che c’è una S che manca, tra l’altro la S che è iniziale del nome Simone.
Sono del resto questi i due piani, indissolubilmente intrecciati tra loro (nel segno della mancanza e del “disguido”, per riprendere la quarta di copertina firmata da Niva Lorenzini), dell’Archivio privato di Marcelli: l’archivio anagrafico dei domicili abitati e quello amministrativo (forse previdenziale, con una certa, condivisibile nostalgia!) dei lavori svolti, insieme al racconto privato di chi ha vissuto quella storia.
In particolare, è la spinta oggettivante e defamiliarizzante della riunione dei materiali biografici in un archivio (“…viva / l’inventario, l’archivio, non c’è altro, ecco che bell’archivio pieno di cose / mancate di oggetti persi di materia di lavoro di polvere e sassi”, p. 38) che finisce per corrispondere, non senza spiragli perturbanti, allo smembramento e dispersione del soggetto: “immagine della voce-segnale – nel tempo della non-risposta / tra la domanda dell’emigrato M. e il silenzio di sua madre – / che si perde al valico…” (p. 14).
Versi, questi, che possono essere presi a modello, poiché contengono in nuce vari aspetti di estrema importanza nella costruzione del libro. Come già accennato, l’io è ridotto a segno grafico, prospettando, in chiave kafkiana, un signor K. sempre sulla soglia, eppure mai ammesso completamente nei territori dell’esperienza, o anche della vita, del godimento… Signor M., più che S., come si segnalava sopra, anche quando sarebbe più comune pensare al nome proprio: Simone Marcelli si figura ‘signor M.’ anche quando ritrova “tra le scartoffie” dell’archivio una “vecchia fotografia” la cui didascalia recita: “M. giorno della prima comunione:” (p. 38).
La sottrazione, diffrazione o disguido è quindi anche esproprio, in quanto perdita del nome proprio, che solo in un’occasione riemerge, per due volte consecutive, ma apparendo graficamente separato nei suoi distinti grafemi e quindi irrimediabilmente lacerato (“S i m ò n e”, p. 56). Esproprio che può essere analizzato in stretta correlazione con la condizione di alienazione del lavoratore M., e ancora, con esplicito utilizzo di terminologia economica (di derivazione marxista?), al “declassamento che serve ad aumentare / il saggio di profitto, se serve” (p. 21).
Non sembra infatti una mera autobiografia lirica del precariato, quella che offre Simone Marcelli in Archivio privato, differenziandosi in modo molto lucido dalle modalità iper-retoriche di questo genere: per ricalcare il titolo del famoso libro di Aldo Nove Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese (2006), Simone non si chiama Simone (il nome è stato espropriato), non ha 40 anni (non sappiamo con esattezza l’età, leggendo il libro), né guadagna 250 ero al mese (non sappiamo neanche questo). E poi, come si legge nell’incipit dell’ultimo testo: “a che vale lo scorno a che vale la polemica la lezioncina la morale / in poche righe di fiele, se non ci stiamo capendo se volevamo dire altro…” (p. 63)?
Quel che si cerca, piuttosto, è un legame con la critica dell’economia politica, tenendo presente allo stesso tempo – per la residuale capacità dei processi di autocoscienza (si veda, contro ogni falsa coscienza, la “fame posizionale” citata a p. 55) non ancora colpiti da esproprio – che oltre alla condizione lavorativa, individuale o collettiva, c’è qualcosa di ancor più inquietante dietro l’angolo: “una rete per pesci stupidi: dentro ci aspettano, assassini e picchiatori. / Altro che spazio urbano, altro che lavoratori” (p. 28).
Uno stato di ferinità gerarchizzata eppure diffusa, al quale non si sfugge mai del tutto, né trasferendosi fuori dai confini italiani, né cercando rifugio in quella “mamma mammina” che non è evocata soltanto a pagina 14, ma resta variamente presente, con un tratto pienamente riuscito di inquietante morbosità, in tutto il libro. È, del resto, materna anche la lingua che manca (la “non-risposta” che “si perde al valico”) e insieme sovrabbonda nella poesia di Marcelli, talora soverchiata da una lingua francese non sempre grammaticalmente ineccepibile, come si conviene alla lingua del dispatrio (a p. 35, per esempio: “trois merveilleux ingrédient [sic], pour prendre soin de mon [sic] peau: / l’amande douce, pour commencer, e poi magari anche una pelle / che abbia bisogno di cure…”), talora ripresentandosi esuberante e barocca (“Certo non si può chiamare un buco nell’acqua / l’andirivieni delle settimane seguenti, che vantaggi e che prezzi, poi, / e di acqua manco a parlarne, nell’arsura, ma il buco, invece, che buco / fondo, che strappo a un certo punto, non ne rimane quasi ricordo, grazie a Dio…”, p. 38).
Si rivitalizzano, così, con una notevole freschezza del dettato, moduli che sembrano di ascendenza sanguinetiana (più che di Elio Pagliarani, alla cui memoria è pure intitolato il premio per gli inediti vinto da Archivio privato nel 2017), ma si entra anche in un terreno ambiguo, ludico e al tempo stesso distaccato e ironico (come si legge a p. 55: “…e che lingua aperta che lingua proteiforme / dice tutto e niente, dice sempre altre cose, e fa ridere e fa paura ai più”).
Se la lingua non salva, non vi è rifugio, tuttavia, nemmeno nell’immagine: anche le fotografie dell’archivio privato “sono dette in differita” e “significano tutto e niente e sono piene di un senso inutile” (p. 45). Primato retinico della poesia italiana che Simone Marcelli si prefigge di evitare – ricordando(si), con preziosa sinestesia, che “bisogna crescere tappandosi le orecchie” (p. 45) – ma nel quale ricade talvolta, con un uso ancora episodico e non strutturale degli inserti grafici.
In ogni caso, e qui sembra stare la chiave di volta dell’intera, straordinaria raccolta, non è ricorrendo al potenziale della parola o dell’immagine che si può far esplodere l’archivio privato (anzi, con questa fiducia nelle parole e nelle immagini si tende ogni volta a ricostruirlo), bensì “è con parole secche” – cercate nei processi deliranti, eppure ancora possibili, di autocoscienza – “che dopo un momento innumerato di raccoglimento e silenzio / prenderemo tutto, che butteremo giù la casa” (p. 63).