Alcuni mesi fa, si scriveva in questa rubrica, di un libro ingiustamente passato in sordina come la traduzione de I dodici di Aleksandr Blok (e insieme di Paul Celan), firmata da Dario Borso per i tipi dell’Arcolaio. Stessa sorte mi sembra sia toccata, almeno per quanto riguarda la distesa magmatica del lit-web, per il lavoro meccanico di Gianluca Rizzo, pubblicato ormai tre anni fa da Oèdipus, nella collana diretta da Mariano Baino.
Le brevi note che seguono non intendono in alcun modo intervenire, con una certa dose di hybris, a colmare questa lacuna, ma si limitano a segnalare qualcosa che è uscito troppo presto dai radar della “critica letteraria online” (nel caso, non del tutto verificato, che esista un fenomeno che si possa davvero definire tale, soprattutto nell’ambito dispersivo, rizomatico e dalla voce poco più che flebile della poesia italiana contemporanea).
Troppo presto, o troppo facilmente, forse, visto che l’opera di Gianluca Rizzo non si presta a rapide e sicure decrittazioni. Come si legge nel libro stesso, in Amorose persone, “di lingua pacifica, amena, del tutto innocua, / eppure amabile, di basamento forte, robusta / di lombi e leggera di piedi, scritta in punta / di penna, a rigor di logica e a passion veduta” (p. 75), il poeta non sa che farsene. Meglio accendere, e per davvero!, il motore di questa lingua, che nei suoi quattro tempi (corrispondenti alle quattro sezioni del libro: “Aspirazione”, “Compressione”, “Espansione”, “Scarico”) è simmetrico all’apocalissi citata nel sottotitolo.
A questo proposito, analizzando con l’usuale perizia il libro di Rizzo, Stefano Colangelo rileva che nel libro “[i]l passo complessivo è regolare, quasi composto: è un’ironia – questa sì, non ci si sbaglia – da armamentario leopardiano. Sorprende, per di più, specie nella prima sezione del libro, il dominio significativo del tempo futuro. Quel tempo verbale – costretto nello spazio cinetico della camera di scoppio – finisce per agire a ritroso, lasciando tracce nell’esperienza già vissuta: un futuro-passato, come direbbe Reinhart Koselleck; un futuro lanciato dietro le spalle, come le pietre cadute dalle mani di Deucalione e Pirra” (p. 99).
È un motore, dunque, che gira secondo una temporalità che non è propria della fisica, bensì della sua Lezione, per riprendere il titolo di Elio Pagliarani citato in esergo al libro di Rizzo (“perché l’opposizione agisca da opposizione / e abbia i suoi testimoni”), e che da Rizzo viene integralmente introiettato e rielaborato a fondo (se confrontato, almeno, con i molti altri che più superficialmente, oggi, si fregiano di Pagliarani come modello).
Accanto a Pagliarani vi è certamente, e in una miscela senza dubbio esplosiva, “l’amico-maestro Luigi Ballerini, l’autore di Cefalonia, di Se il tempo è matto”: per seguire di nuovo l’analisi di Colangelo, “Rizzo, rispetto a Ballerini, sembra sviluppare un’attitudine più astratta, più distanziata nel trattare gli elementi residuali, accolti nella pagina da fuori – dal ribollire dei media, per esempio, o da altre specie di intrugli soporiferi di parole. C’è qui più geometria, più telaio, più reticolo” (pp. 99-100).
Vi è, in altre parole, un certo grado – talvolta parodiato, talvolta fondo irriducibile del linguaggio – di scientificità, e in questi termini non è difficile scorgere la “deformazione professionale” dell’autore, ovvero, uscendo dal cliché pernicioso, il contagio di quel lavoro culturale assai peculiare, almeno nei suoi rapporti con la poesia, che è la ricerca accademica. Contagio da intendersi, peraltro, in un’accezione per nulla negativa, poiché quel che si vuole enfatizzare non è tanto l’accumularsi di aulicismi o di astrattezze stranianti, bensì le determinazioni etico-politiche specifiche, nella poesia di Rizzo, di un lavoro culturale, di nuovo, che rischia spesso di ridursi a “lavoro meccanico”. Del resto, è anche così, ossia rinviando al pericolo sottostante di una nuova barbarie anti-intellettuale, che si apre la prospettiva apocalittica contenuta nel titolo, in questo ricordando, almeno parzialmente, un esempio più recente di scrittura poetica come Hula Apocalisse (Prufrock, 2018), firmato a sei mani da Roberto Batisti, Francesco Brancati e Marco Malvestio.
Scientificità, dunque, dello sguardo analitico e dei processi di autocoscienza, secondo una tradizione che è chiaramente di derivazione marxista. Passano allora in secondo piano, almeno in questa lettura, le annotazioni meta-poetiche che si ritrovano qui e là nell’opera: dal già menzionato attacco alla lingua lirica e post-lirica, “pacifica, amena, del tutto innocua” alla parodia del neometricismo (“Maggio porterà la pioggia, / per ragioni metriche e di consonanza. / Il papa, a passeggio nei giardini vaticani, / ne sarà dispiaciuto, per ragioni metriche”, p. 15), passando, forse, per un accenno ai difetti nella costruzione di una credibile filosofia della storia da parte di certa scrittura di ricerca (“Sfuggono agli elenchi, / con indolenza regolare, / granatieri sardi e vedette lombarde…”, ivi).
È forse più importante la “presa di coscienza di un’economia / dei mezzi espressivi”, come si legge nello splendido testo che risponde al titolo di Esercizio, qualcosa che può dare conto più compiutamente di una ri-nascente critica dell’economia politica, ovvero di “quel taglio lirico che assumono / le case popolari” (p. 51).
Di contro all’apocalissi in quattro tempi, è in questo esercizio che si possono cogliere meglio le “due lingue di fiamma dallo stesso rogo / generate” (p. 52): due lingue che definiscono, nel loro reciproco inseguirsi e accendersi, la “produttività infinita, ingiustificata” (p. 52) delle scritture poetiche contemporanee.
Tuttavia, per quanto calata nelle mobili dinamiche del “futuro-passato”, l’osservazione resta qui conchiusa nella sua impasse, fatto del quale è necessario, eticamente e politicamente, prendere atto, poiché questa lingua è “in grado di mettere in ginocchio le economie / mondiali”, sì, e “pertanto va repressa nel sangue, / di nascosto dai monarchi illuminati” (p. 52).