22.22 Free Radiohead – Intervista a Paolo Angeli #discointerviste

di Libera Capozucca

Paolo Angeli è un chitarrista, compositore, etnomusicologo sardo; è un musicista d’avanguardia di fama internazionale conosciuto, oltre che per la sua musica, anche per la sua chitarra sarda preparata a 18 corde. Oggi ci presenta il suo nuovo album “22.22 Free Radiohead”: un omaggio alla band inglese attraverso le sonorità che lo caratterizzano. Leggete l’intervista.

Ciao Paolo, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che abbiamo fatto due chiacchiere insieme. Stavi iniziando il tour nei teatri con Iosonouncane. Cosa è successo nel frattempo?

Dopo il lavoro con Jacopo (Iosonouncane n.d.r.), ho sentito la necessità di ricominciare a studiare il mio strumento. Il tour è iniziato a Marzo dello scorso anno e già venivo da una tournée solista intercontinentale. Ad un certo punto mi sono accorto di dovermi fermare un po’. L’ho realizzato durante alcune date in Portogallo, più raccolte, più intime. In questa fase ho pensato che avrei potuto lavorare alla musica dei Radiohead, scoperti non troppo tempo prima. Così, tornato a Barcellona, dove vivo, mi ritrovavo di sera a suonare la loro musica. Ad un certo punto mi sono chiesto se avessi mai trovato il coraggio di realizzare un disco che omaggiasse una rock band di grande successo, quando io stesso ero in una fase di massima esposizione musicale. Ci ho riflettuto tanto poi, smembrando le sonorità dei Radiohead in lunghe suite improvvisate, in qualche modo ho provato ad avvicinarli alle mie sonorità. Così ho capito che non stavo tradendo il mio percorso ma permettevo a due mondi, apparentemente lontani, di dialogare. Questo disco è l’estensione del mio linguaggio e una dichiarazione di indipendenza da qualsiasi forma di barriera musicale, punto d’incontro tra il free e la forma canzone.

Partendo proprio dal free, il tuo disco si intitola “22.22 Free Radiohead”: un omaggio al rock anglosassone in chiave jazz, world, popolare. Ce ne parli?

Free rappresenta l’idea di liberare la musica dei Radiohead dal concetto di forma canzone occidentale che imprigiona in uno schema fisso, ripetitivo. Persino il jazz parte dalla tradizionale struttura AABA, ma poi ci improvvisa sopra. Ecco, per me free significa rompere questo schema e il lavoro che ho fatto sulle canzoni dei Radiohead è stato proprio quello di portare le loro sonorità ancora più lontano. Come? Estendendo gli elementi, modificando i parametri; ho preso delle cellule di suoni e le ho assemblate insieme, modificandole ulteriormente nei miei live.

E il 22.22 del titolo?

Il numero è una casualità. Di fatto questo album è nato di notte. Normalmente il mio studio sullo strumento avviene di mattino. Nella fase della genesi del disco, continuavo il mio lavoro di sera e mi accorgevo che, guardando l’orologio per paura di non disturbare i vicini, le lancette segnavano puntualmente le 22:22. Così è venuta l’idea di un disco di “Notturni” da registrare in casa anziché in studio, fermando questi momenti di sperimentazione molto lirici, al buio. In realtà poi è emersa la poetica ‘mattutina’, luminosa e mediterranea, e il lavoro è stato registrato allo studio Casagliana di Raffaele Musio, immersi nella natura della Gallura.  Il numero 22 coincide anche con gli anni della mia carriera in solo e 22 sono pure le tracce del disco.

Le 22 tracce dell’album non appartengono tutte ai Radiohead. All’interno dell’album ci sono molti pezzi tuoi e, quelli riferiti alla band inglese, dicevamo, hanno una tua personale rilettura. A cosa è dovuta la scelta di far dialogare il jazz sperimentale, la musica popolare, che sono i tuoi tratti caratteristici, e il rock?

Nel momento in cui mi sono trovato di fronte alla necessità di chiedere l’autorizzazione alla band per la pubblicazione dell’album, io ero già pronto per un piano B. In fondo possedevo un vastissimo materiale che aveva trovato ispirazione dalla musica dei Radiohead ma che avrebbe potuto seguire una direzione del tutto autonoma, se la band non fosse stata d’accordo. In tal senso la presenza dei Radiohead sarebbe stata una sorta di fantasma pronto ad aleggiare su composizioni del tutto personali. I miei brani nascono come sviluppo e collegamento di particelle sonore della band, non su imitazione. Una sfida affascinante: superare quel narcisismo che fa parte del tuo modo di concepire la composizione e che finisce per farti arrivare sempre alle stesse conclusioni musicali. La situazione diventa paradossale, però, quando il tuo pubblico ti chiede una riconoscibilità di linguaggio e tu, invece, stai dando spazio alla creatività rompendo i tuoi schemi. Rimanere sempre riconoscibili perché il pubblico vuole questo, rischia di farti ripetere artisticamente.  

Come fan della prima ora dei Radiohead mi vien da dire che il loro percorso artistico, seppur riconoscibilissimo, è stato sempre molto sperimentale e innovativo, fuori dalle regole di mercato e dalle richieste del pubblico, non trovi?

E’ ciò che mi ha rapito sin dal primo ascolto. Se avessero continuato sulla scia dei primi due dischi sarebbero forse arrivati ad un pubblico di massa quasi subito, ma con Kid A e Amnesiac sono andati in controtendenza, lontano da ciò che i fan si sarebbero aspettati. Quello che mi affascina della musica è la creatività e non mi interessa all’interno di quali generi musicali o secondo quali forme. L’uomo tende ad ordinare le cose in categorie, e nell’ambito musicale dividere la musica in generi oggi si lega alla vendita del prodotto. Il panorama musicale del presente è molto contaminato e, all’interno di un universo globalizzato, è molto riduttivo separare per generi.

Con Iosonouncane la sfida era quella di cucire insieme tendenze e gusti musicali differenti, il controllo all’improvvisazione, la sperimentazione alla fissità di certe procedure. Non è successa un po’ la stessa cosa anche con lui?

Quando è iniziato il tour con Jacopo, il suo pubblico chiedeva continuamente che si suonasse “Stormi”, era rigido di fronte al progetto di una musica sperimentale suonata insieme ad un artista sardo legato a contaminazioni jazz e alla tradizione popolare del suo paese. D’altro canto, anche il mio pubblico faceva le sue richieste, trovando troppo pop il percorso intrapreso con Iosonouncane. I fan erano spaventati dall’idea di una contaminazione che ci facesse perdere la nostra identità artistica, ma alla fine la nostra collaborazione è stato un brillante incontro a metà tra i nostri frastagliati mondi musicali ed ha trovato una risposta positiva.

Il disco è dato da lunghe suite musicali colorate di flamenco, poliritmie africane, sonorità sarde e orientali. Come è nata l’idea e come hai lavorato agli arrangiamenti?

Un giorno ero in auto nell’isola di San Pietro, in Sardegna. Stava diluviando e stranamente la radio prendeva solo in AM. Alle mie orecchie arrivava musica araba, maghrebina, nord-africana per intenderci. Così pensavo: ecco, vedi, io mi trovo in un’isola nel cuore del Mediterraneo e sto ascoltando musica che arriva dalle sponde a sud. Mi son detto: perché non far viaggiare i Radiohead su sonorità arabe? “Airbag”, per l’appunto, è suonata come un’orchestra tunisina che si confronta con il post rock; “Optimistic” come se fosse accompagnata da musicisti del Marocco. L’idea che ho quando orchestro è contestualizzare in latitudini; in questo disco ci sono anche sfumature di flamenco. E pensare che non ho mai amato il flamenco fino a quando non ho ascoltato dal vivo Paco De Lucia, che prima non digerivo per l’eccessivo virtuosismo di Friday Night in San Francisco. Sono fatto così: quando una cosa mi cattura musicalmente, finisco per smontarla come un giocattolo e rimontarla a modo mio. L’evoluzione di “Daydreaming” segue un personale modello compositivo che incontra la poetica di Steve Reich, a sua volta autore dell’opera Radio Rewrite ispirata alla band. Il lavoro su questo disco è durato due anni.

Quindi mi stai dicendo che l’anno scorso, quando ti ho intervistato, stavi già lavorando a questo progetto?

Ovvio, ma non volevo anticipare nulla. Normalmente io faccio sempre passare un po’ di tempo per rendermi conto se valga la pena documentare ciò che sto facendo.

La produzione dei Radiohead dagli esordi è corposissima. In base a quale criterio hai selezionato i pezzi?

Pyramid song” ad esempio, che è un pezzo che adoro, non è stata selezionata come traccia dell’album. Ho tantissimo materiale che non ho utilizzato in questo disco: “Sail to the moon”, “In limbo”, “Little by Little”, per esempio. Il lavoro in studio è crudele perché magari il pezzo suona perfetto ma manca di pathos, non funziona. Così quello che scarto lo utilizzo al momento dei concerti.

Non posso non farti questa domanda: nessun pezzo da “The Bends”, il mio album preferito. Perché?

Quel disco è talmente perfetto così, che andare a lavorarci su sarebbe stato complicato: ne sarebbe uscito un album di cover. Altri album invece mi hanno permesso di spostarmi dal centro della band verso mie sperimentazioni. The Bends è un album di essenzialità rock, poco rimaneggiabile.

Cosa hai scoperto nella musica dei Radiohead che prima non conoscevi?

Mi ha colpito il coraggio della loro autodeterminazione, la capacità di fare una musica che arrivi ad un pubblico molto ampio senza cedere alle leggi del mercato. Sono stati loro ogni volta a decidere come collocarsi in una dimensione commerciale, scegliendo sempre un prodotto all’avanguardia. Compriamo un loro disco per capire ogni volta in che direzioni si sono spinti…spettacolare! Il loro concetto di band mi incanta: la loro musica è la risultante delle singole personalità del gruppo, un lavoro eterofonico, costruito su linee individuali.

Associ i Radiohead a Sergio Leone in “Hunting Bears” riferendoti alla trilogia del tempo. Ci spieghi meglio questo accostamento?

Questo brano è un cantuccio della discografia dei Radiohead: prima di tutto non è cantato e presenta delle sonorità che si aprono a visioni cinematografiche fatte di polvere, spazi aperti, distese. Mi ha richiamato alla mente Morricone e Sergio Leone. Ogni passaggio del pezzo è un fotogramma.

Cosa ti aspetti dal disco e dal tour? Ho sentito dire che i fan dei Radiohead sono intransigenti e snob (esclusi i presenti ovviamente!). Sei condizionato dal giudizio degli affezionatissimi della band?

Il primo feedback, per me molto importante, è arrivato dai concerti quando, in via sperimentale, ho presentato 22.22 nei miei live a Parigi, a Pisa, a Cagliari. I fan della band hanno apprezzato molto il lavoro, ma è stato a Parigi che temevo di dover fare i conti con il mio pubblico che non conosce i Radiohead. Un critico francese mi ha riferito di aver ascoltato in quella sede uno di miei concerti più belli. I miei live propongono sempre versioni nuove dell’album e ogni concerto non è mai uguale agli altri. Questo è emerso anche nel tour di aprile in Italia che mi ha dato una grande soddisfazione: riesco a suonare musica di derivazione art/pop rock senza riunciare ad una musicalità profondamente legata all improvvisazione libera.

Io mi auguro di potervi vedere insieme sul palco…

Magari. Ne sarei onorato.

Foto di Nanni Angeli

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