Diego Fabbri rimarrà nella storia probabilmente per il suo dramma Processo a Gesù, cui pare essersi ispirato Pomilio ne Il quinto evangelio (il dramma finale). E’ un’opera ancora viva, che fa discutere, per quanto vi sia anche un intento religioso di conversione. Il testo è ancora molto rappresentato a teatro, eccone un articolo. LG
A riesumare un autore ritenuto ancora scomodo, Diego Fabbri, il cui teatro è stato spesso liquidato col termine “religioso” e quindi ghettizzato per giustificarne la quasi irrappresentabilità, è stato la scorsa estate l’Istituto Dramma Popolare di San Miniato. Per la sessantaquattresima edizione della Festa del Teatro, questa istituzione votata coraggiosamente da sempre ad un teatro dello spirito, ha scelto «Processo a Gesù» (spettacolo di nuovo in tournèe) per il centenario della nascita del drammaturgo di Forlì.
Esempio coinvolgente di teatro nel teatro l’opera, del 1955, è la storia di un gruppo di attori ebrei che recita quel processo di venti secoli fa tra la gente di oggi, perché assillati da alcuni interrogativi storici, particolarmente pressanti subito dopo la fine dell’ultima guerra. Sganciato da quel contesto storico il testo è ancora oggi monito e richiamo per la ricerca della verità. Quella non facile e vendibile, ma che va cercata, con sofferenza, dentro l’animo umano.
“Dov’è oggi la verità?» tuona l’ebreo Elia, il capo della compagnia che pone al pubblico lo stesso dubbio tormentoso che assilla lui, la moglie Rebecca, la figlia Sara e il giovane Davide.
Prendendo l’avvio dalla notizia che alcuni giuristi anglosassoni s’erano posti il problema del processo a Gesù e che si erano recati a Gerusalemme per ricelebrarlo pubblicamente, Fabbri si accorse dell’idea di un processo fatto da uomini d’oggi a Gesù, di un processo non tanto a Cristo, ma a loro stessi, «alla loro tenace e spesso oscura e irragionevole paura di abbandonarsi alla speranza».
Di qui l’impianto del dramma dove, servendosi di una struttura di tipo processuale in cui i fatti sono riferiti attraverso interrogatori e testimonianze, Fabbri mette in scena una drammatizzazione degli episodi della vita di Cristo. Sono le parole di quel dibattito insistente per accertare l’ineluttabilità o meno del tragico verdetto sul Nazareno. Il testo, e la relativa messinscena, è impegnativo e richiede naturalmente una predisposizione all’ascolto perché pone domande che ci riguardano tutti, a prescindere dalla fede e dal credere o meno.
Le ha poste al regista Maurizio Panici, e le ha sollecitate all’ottima squadra d’attori scelti per dare voce e corpo a parole che necessitano di farsi “carne”, in ciascuno di loro anzitutto, per poi giungere a noi, e interpellarci. La trovata del processo conserva ormai qualcosa di pretestuoso, favorendo tra l’altro quella tendenza un poco oratoria che è nello stile di Fabbri. Così è scontata una certa matrice pirandelliana che la regia evidenzia con l’apparizione finale di finti spettatori in maschera per ridare al discorso una dimensione quotidiana e contemporanea, ma principalmente con la scoperta da parte degli interpreti, che le loro vicende personali, morali e di vita, sono riconducibili allo schema archetipo della vicenda di Cristo, del tradimento, della passione, del bisogno di credere, del dubbio, della debolezza umana. Ed è proprio attraverso questo passaggio che i personaggi acquistano una necessità intima che riesce a giustificare il tutto.
Dopo la prima parte espositiva con la ricostruzione del processo, dove viene posto il problema del fallimento dell’attesa messianica che va a toccare anche i cristiani incapaci di manifestare con le parole e le opere la loro fede, il dibattito sempre più diviene dibattito di coscienze, discorso dialettico tra etica e politica, rovello di colpe, ansie e speranze, che sono i momenti rivelatori di una condizione esistenziale.
La scena di Daniele Spisa dispone davanti alla parete frontale di pannelli un’aula processuale con un banco centrale e poltrone geometriche stilizzate dove gli attori, in giacca e cravatta, sostano ai lati e avanzano per i loro interventi. Sulle musiche intermittenti che sottolineano momenti cruciali e tengono alta la tensione, s’impone la forza della parola restituita con autorevolezza dall’ottimo cast capitanato da un superbo Massimo Foschi e con, fra gli altri, Crescenza Guarnieri, Massimiliano Franciosa, Alice Spina, e Daniele Pilli, un Giuda biancovestito che, nell’immobilità assoluta, girando solo la testa e muovendo appena le braccia, lancia, dosandole, parole di grande forza espressiva.
Processo a Gesù
di Diego Fabbri,
con Massimo Foschi, e la partecipazione di Angiola Baggi, con Renato Campese, Dely De Maio, Crescenza Guarnieri, Massimiliano Franciosa, Maurizio Panici, Massimo Reale, Alessia Innocenti, Tommaso Pagliarini, Rocco Piciulo, Daniele Pilli, Alice Spisa, Marco Vergani.
Scene Daniele Spisa, costumi Lucia Mariani, musiche Stefano Saletti, luci Riccardo Tonelli, Roberto Rocc, regia Maurizio Panici.
Argot Produzioni, Fondazione Istituto Dramma Popolare di S. Miniato, Artè.
Al teatro Valle di Roma; alla Pergola di Firenze dal 26 al 29 aprile.
www.teatrodellapergola.com