di Giuseppe Martella
Fabio Michieli, Dire, L’arcolaio, 2019
Dire, di Fabio Michieli, puntava, già dalla prima edizione del 2008, sull’ambivalenza di significato della prima persona “dico” che, in latino, appartiene sia al verbo “dīcĕre”, dire, della terza coniugazione che al verbo “dicāre”, dedicare, della prima, per mettere in luce la complementarità, costitutiva del linguaggio (e della poesia in particolare) fra il dire e il fare. Cioè il valore performativo della parola che, appena pronunciata, già comporta la dedica ed esige la dedizione. Di che tipo e da parte di chi, sarà poi da decidere caso per caso. Questa ambiguità essenziale viene subito evidenziata dal Dicatum iniziale che non è un semplice esergo ma una dedica vera e propria alla seconda persona del dialogo in versi che l’io poetico si appresta ad avviare: “volevo un libro chiaro per noi due:/ una pagina bianca quasi pura.”
Tale ambivalenza, d’altronde, attiene perfettamente al nucleo centrale dell’opera, il mito di Orfeo e Euridice, già lì elaborato nel segno della reciprocità dei ruoli del soggetto e dell’oggetto della visione poetica, come risulta chiaro dalle parole che Euridice rivolge a Orfeo: “voltati e guardami!/ …ti supplico:/ spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!/annientami: dissolvimi: esaudiscimi: annullami” (Dire, 2008: 22) L’intenzione metapoetica dell’opera di Michieli avrebbe dovuto dunque risultare chiara al lettore accorto e non digiuno di latino, anche perché si accompagnava al gesto eloquente di una mano levata a mezz’aria (nel frontespizio del libro) a consacrare appunto la dimensione performativa dell’atto di parola.
In questa nuova edizione, riveduta e accresciuta, del 2019, però, lo stesso esergo iniziale, trovandosi ora a precedere una nuova sezione che si intitola Genesi (con riferimento presumibile allo stesso poema), appare piuttosto, nel segno di una distanza temporale acquisita, come una vera e propria dedica al lettore – chiamandolo pertanto a partecipare di persona alla svolta polifonica che sta ora per prendere l’allegoria del poiein, il mito di Orfeo e Euridice. Chi conosce dunque la genesi effettiva del nuovo testo (nella cui prima sezione si dice per cenni: in sei brevi liriche che richiamano i giorni della creazione), comprende che la distanza temporale (11 anni tra la prima e la seconda edizione) è entrata ormai a far parte a pieno titolo della struttura dell’opera e del suo stesso significato, secondo i canoni ortodossi dell’ermeneutica filosofica del Novecento. E, anzi, si può affermare che questa nuova edizione costituisce di per sé una concreta fusione di orizzonti fra l’atto della produzione e quello della ricezione del testopoetico. Questo spostamento di prospettiva giustifica in partenza l’intera operazione di riscrittura, chiarendone la portata ermeneutico-esistenziale. I concetti di prospettiva e di distanza risultano peraltro indispensabili per comprendere il senso delle altre trasposizioni compiute nello spazio del testo e cioè anzitutto del prelievo, spostamento e messa a fuoco di alcuni dettagli che modificano la valenza dell’intero quadro di insieme. Saranno insomma concetti essenziali per comprendere la forma spaziale, plastica, in cui questo “dire” ricompone le figure di un discorso pregresso.
Come si diceva, la titolazione della prima parte, Genesi, intende rimarcare il tempo trascorso e l’operazione genealogica ora intesa e puntualmente riassunta nel bel distico iniziale: “ritrovo il tempo andato tra la cenere/ se si consuma il fuoco” (23), ripetuto poi con uno scambio pronominale nel corsivo parentetico alla fine della lirica, quasi a ribadire l’indissolubilità del pathei mathos, di conoscenza e dolore: “(ritrovo il tempo andato tra le cenerese mi consuma il fuoco)” – e la sua centralità per la nuova impresa poetica.
Con la successiva citazione di Ingeborg Bachmann in esergo poi, nella seconda stazione di questo Genesi, compare la prima di diverse figure femminili che costituiscono come le schegge dell’aura esplosa dell’unica interlocutrice della prima edizione: “seppi volare un giorno questo cielo:/ distesi le ali in sogno – (d’altri cieli volevo/ percorrere l’azzurro)(24). In questo dialogo fantasmatico a distanza, risponde Orfeo che si avverte anch’egli (come il mago delle Rovine Circolari di Borges) come mera creatura del sogno di un altro, apparendo così consapevole della propria nullità esistenziale (“ab origine mundi/ fui tratto anch’io dal nulla”:25), ma anche del lavoro nel frattempo fatto su se stesso (“so quanto tempo ho speso per trovarmi”: 26), deciso a fare ammenda per le reticenze passate, dettate dalla timidezza o dall’orgoglio, preparato ora a dialogare col “non detto ascoltato e rivissuto” (27) e perciò anche ad aprirsi all’incanto “di una musica (che mai fu [sua] se non in neri abbagli” (28).
Solo dopo questa inedita presa di coscienza, si torna, nella sezione ora centrale, a quello che fu il “primo tempo” della creazione: se ne riprendono cioè letteralmente le liriche, se ne ripercorrono le stazioni, ma ovviamente non si è più gli stessi e le parole rivisitate hanno un peso diverso. La posposizione (diffàrance) dell’antico inizio infatti già dice interamente la distanza temporale intercorsa e il rivolgimento dello sguardo (metanoia) intervenuto. È come se l’io poetico si fosse ripetutamente spostato nel frattempo sul polo della ricezione, traendo da questo andirivieni una sorta di “ricomposizione di luogo” (un esercizio spirituale nel senso indicato da Sant’Ignazio da Loyola), in cui commisurare i dettagli del proprio progetto poetico-esistenziale – per una più sobria mappatura del proprio operare nel mondo insieme agli altri.
La dedica alla madre, piuttosto che all’interlocutrice iniziale, di questo passo, “tingerò d’amaranto questi versi/perché tu possa scorgerli lontani/ quando la luce imbruna il cielo a sera” (33) chiarisce poi definitivamente il cambio di prospettiva della silloge, l’approccio più corale al fare poetico, la nuova ricchezza polifonica guadagnata attraverso minimi scarti di tono. Si attua insomma la ridefinizione della mappa del dire, attraverso “la vita dei dettagli” (Anedda) e si riapre l’intero orizzonte esistenziale dell’io poetico, sull’ultima soglia, “là dove tutti i limiti si incontrano” (34). Muta così il tenore della Dichtung di questa nuova edizione del testo, anche in quei molti suoi luoghi che sono rimasti tipograficamente identici ma il cui valore di posizione è significativamente mutato. Insomma, l’innesto delle due nuove sezioni, Genesi e Circostanze, all’inizio e alla fine della prima edizione di Dire (2008), funge da cornice spazio-temporale del nuovo testo e, insieme ad alcuni aggiustamenti di dettaglio della parte più antica, induce una nuova prospettiva di ricezione, autorizzando chi conosceva la prima edizione a una lettura per così dire stereoscopica della nuova, in grado di fargli cogliere il senso e lo spessore dell’interaoperazione.
In questa ripresa ermeneutica-esistenziale (Wiederholung) della propria opera da parte dell’autore, occupa infine un posto particolarmente importante l’esigenza di un recupero del rapporto col proprio padre estinto, un dialogo in mortem condotto con intensità e pudore, su cui si innesta quasi surrettiziamente (come capita spesso poi davvero nella vita) quello con l’amore ritrovato (risolto quasi solo in una sintonia di sguardi e di vedute: Parigi, Barcellona), che funge da appropriato contrappunto a quello dell’amore perduto che costituiva il filo conduttore di un “essente stato” (o primo tempo) ormai trasfigurato nel nuovo progetto poetico.
Si arricchisce e pacifica così l’intero dialogo con gli assenti e i morti a ribadire quella metanoia di cui dicevamo, che si sostanzia poi nella pratica dei ritagli e delle ricuciture del testo, in modi che a me richiamano in particolare quell’arte di “scomporre quadri, immaginare mondi” di cui è maestra Antonella Anedda, benché in lei si realizzi poi in modi più drastici e stranianti mentre qui l’arte del ritaglio rimane pur sempre al servizio di una omogeneità metrica e di una chiarezza discorsiva di ordine neoclassico (65). Fino allo scorcio finale che tratteggia un orizzonte poetico-esistenziale che pare provvisoriamente compiuto e pacificato ma che è ovviamente ancora aperto al rischio che ogni autentica passione e dedizione comportano: “sopra un cielo di nubi, e l’orizzonte/teso davanti a fermare i colori/ per questa pagina tornata bianca” (85). Ma il bianco di cui qui si dice non designa più la purezza invocata all’inizio, quanto piuttosto la levigatezza marmorea e lo spessore del senso guadagnati, la compresenza virtuale di tutti i colori, la composta predisposizione a tutte le occasionali sfumature dell’esperienza.
Alessandro Canzian nel 2014, commentando la prima edizione di Dire sul suo blog, dichiarava di essere rimasto folgorato dalla lirica Tango (che parimenti ha colpito anche me), dove si coglie al meglio il lavoro di cesello e di lima di Fabio Michieli, che ci consegna “una parola affilata che però non ferisce e anzi pare riparare a ferite pregresse, a cicatrici non coperte ma rese più pulite, più nitide.” Ecco, l’operazione del cesellare e levigare può essere la migliore metafora per la comprensione della poesia di Fabio Michieli. È come se infatti la parola, il metro, il verso giusti, lui li avesse già trovati, anche solo per un attimo, nella vita reale, con tutta la loro carica emotiva, gestuale, con la loro potenza di incidere, ferire. E poi li avesse lasciati scivolare via nel flusso del divenire altro, come in un fiume dove però da qualche parte a valle, si fosse apprestata una chiusa o una rete a strascico che vada a raccattarli, pesci ancora vivi, schegge ancora taglienti di pietre, di noccioli duri da digerire, che ora vanno vagliati uno per uno, levigati, smussati negli spigoli, resi compatibili fra loro, alla lontana magari, negli spazi bianchi fra un dentro e un fuori che sempre rischiano di invadersi a vicenda: di abbacinarsi in una luce reciproca di rimandi speculari che finirebbe per cedere il palcoscenico alle ombre. Come spesso accade in certa poesia contemporanea. Ma Michieli si arresta un attimo prima e vaglia la natura dei detriti, di vita e linguaggio, ripartiti sulle varie discariche del tempo che ha attraversato, tra le sacche porose dei neuroni, dove la memoria e l’oblio giocano a dadi – come in una sorta di preludio digitale delle analogie dei sogni e della storia. In quell’attimo/epoca (Aion) dove si sta con uno specchio ustorio tra le mani che ti rimanda per riflessi la corrente del tempo appena trascorso e di quello di prima e prima ancora, in una fuga di orizzonti che rischia di offuscarti la vista e di bruciarti i reperti tra le mani. Ma lui ha già inforcato occhiali e guanti da fabbro, per mettersi al lavoro sul retaggio di versi, strofe, discorsi, suoi e di altri. Ha soppesato, come sui due piatti di una bilancia, la propria esperienza e l’eredità dei maestri e li manipola come in un’unica pasta, come fa l’artefice criticamente avvertito. Fra controllo e abbandono, la poesia di Michieli tende verso il primo polo, l’apollineo, ma l’abbandono c’è stato e si avverte in quei minimi scarti della misura del verso e dell’ordine della sintassi: Dioniso ha colpito in più punti (fuori del tempo), lasciando cesure e ispessimenti, dettagli in una architettura tendenzialmente classica, in un dettato che, per quanto allusivo, mira però sempre nel complesso alla chiarezza. Questo è il tenore del “dire” di Michieli, reticente e imperioso nel contempo, tagliente e plastico, tendente al pudore e alla perentorietà del gesto.
Mi unisco alla lettura densa e attenta di Giuseppe Martella
Leggendo il” Dire, nuova e preziosa edizione del catalogo dell’Arcolaio di Gianfranco Fabbri, per prima cosa colpisce la maturità del linguaggio e dello stile che non sarebbe stato possibile se l’autore non avesse avuto una letteratura dietro di sé, e non l’avesse profondamente conosciuta (credo che sul merito ci troveremmo tutti d’accordo). Fabio Michieli è un autore colto, di una cultura tutta congrua agli interessi del suo lavoro e credo che pochi poeti abbiano mai dominato con altrettanto sicurezza la complessa struttura del linguaggio, sia dal punto di vista del significato sia del suono, senza perciò smarrire al momento giusto le risorse di una diretta, concisa, stupefacente semplicità. Lo sfondo simbolico per il poeta pellegrino nell’immensità dell’immaginazione, è il mito di Orfeo e la parola costituisce l’unica certezza; essa è la legge che gli consente di rappresentare il mistero.” Svelami ora il mistero/ di questi suoni, di queste parole…”(pag. 28). Dunque la poesia canta non tanto perché tale è la forma originaria in cui si esprime il poeta, quanto perché nell’armonia della parola lirica si concentra un potere che si identifica con il ritmo della natura universale. Dire è anche memoria che ristora dal bruciore dell’esperienza terrena all’insegna di un’arte che attinge la propria verità alle risorse intrinseche del linguaggio, Dire è dialogo che travalica l’esigenza di trasmettere un messaggio per perseguire, attraverso l’essenza stessa della parola, quel suo fondere il presente e l’assente, la sua consapevolezza del finito e la sua aspirazione all’infinito “ volevo un libro chiaro per noi due/ una pagina bianca quasi pura”, il reciproco annullamento del soggetto e dell’oggetto in una voce, genesi del Dire.
Maria Allo
Ti ringrazio, Maria, per questo commento che è, nella sua sintesi, una Nota a tutti gli effetti.
Grazie infinite