Al Teatro Brancati: “Chi Vive Giace”, sinfonia siciliana del dipartire e del restare

di Marta Cutugno

Catania. È la Sicilia che affronta il dolore della perdita “in un modo che non si capisce” quella dipinta da Roberto Alajmo in “Chi Vive Giace“, la deliziosa black comedy diretta da Armando Pugliese ed interpretata da David Coco, Agostino Zumbo, Roberta Caronia, Stefania Blandeburgo e Claudio Zappalà, in scena al Teatro Vitaliano Brancati fino al 24 novembre. 

Impronta noir e molta ironia per la storia di SangùSanguzzu, piccolo sangue – che porta il lutto al braccio perché ha perso la sua Sanguetta, travolta dall’auto guidata malamente dal figlio del macellaio. Un marito ed una moglie che al cimitero hanno cura di stare zitti e poi, tra le mura di casa, possono raccontarsi e persino scambiarsi il posto per un certo tempo, tra l’aldilà e l’aldiqua, anche se il tempo, oramai, ha smarrito il suo senso. Tutta colpa di un “fango” che sei mesi prima ha causato il fatale sinistro. Perché poi “Quando è l’ora tua, è l’ora tua“. 

In Sanguetta, che è andata via ma sta ancora lì tra le sue cose di casa, c’è il rancore sicuro della vittima e la voglia di capire quei tristi fatti mentre il mondo fuori applica il protocollo del cordoglio che si macina nelle chiacchiere da bar, nell’impiccio e nel desiderio di vendetta. Dal lato opposto della vicenda, un padre tenta di convincere l’incauto figlio a chiedere perdono per la tragica distrazione mentre un’altra figura dell’altro mondo, la madre dipartita anni prima, interagisce dalla sua sedia a rotelle sostenendo, per il giovane, la tesi innocentista della fatalità ai danni di quella mischina. 

Quando il sipario è ancora chiuso giungono in platea le prime note flautate: sono incipit d’ovatta delle bellissime musiche firmate da Nicola Piovani che ricostruisce, in partitura, gli estremi di una favola scura e leggera, a suon di carillon. Con funzionalità discreta ed elegante grigiore, le scenografie di Andrea Taddei svelano due ambienti diversi che, fondendosi, daranno poi origine al terzo ed ultimo schizzo scenico. A casa di Sangù, tra il mobilio fatto di strutture semplici dotate di ruote, si scorgono valigie, candele accese davanti alla foto della defunta, un lettuccio sottile, pochi libri e bassi pensili uso cucina. Un secondo ambiente presenterà la carnezzeria: stesse strutture, ancora valigie, candele, foto e  carne appesa al soffitto che riporta alla famosa Vucciria del Guttuso.

Lo spettacolo scritto da Alajmo ricorre allo humour nero per raccontare di stereotipi e per scacciare con leggerezza le distanze tra persone vivi e persone morti che, in scena, si mescolano tra loro, indagando le ragioni di quella strana ed irreale situazione. Due famiglie colpite dallo stesso dramma che, alla fine, si ritroveranno in un posto “che non si capisce” in cui prende forma la paura che i vivi hanno dei morti perché i vivi, invece, non fanno paura a nessuno. Sull’imbarazzo e sull’impulsività vinceranno il buon senso ed il perdono. “Chi vive giace, chi muore si dà pace” recitano, ribaltando il noto detto mentre si vengono incontro, imbandiscono la tavola, bevono e mangiano finché c’è da mangiare. Molto belli i costumi di Dora Argento, punto di raccordo tra il realismo ricercato per i tre vivi (abito scuro e fantali sporchi di sangue) e l’omaggio all’altro mondo per le due defunte. Entrambe con le garze sugli occhi, sono vestite del bianco o del nero e portano addosso, l’una sulla testa l’altra come borsetta, la coroncina funebre di fiori. Eccellenti, brillanti le interpretazioni degli attori tutti: l’inconsolabile David Coco-Sangù, Roberta Caronia– a mischina Sanguetta, Stefania Blandeburgo nei panni della mamma del fango, Roberto Nobile il macellaio, Claudio Zappalà il giovane guidatore distratto.

La sapiente regia di Armando Pugliese si propaga come una fuga le cui voci si esprimono e rincorrono. Pugliese realizza sulla scena la scrittura dell’autore con la cura del dettaglio, assecondandone l’insita musicalità. Nelle note di regia, infatti, afferma : “Alla prima lettura del testo di Alajmo ciò che mi ha maggiormente colpito e affascinato è stata la forma espressiva, il linguaggio. Nel senso più ampio del termine. Tanto che mi è parso di leggere musica. Che si manifestasse in parole e costruzioni sintattiche articolate in accordi o intervalli, ritmi o allitterazioni, tutto concorreva a dare voce a personaggi che si incontrano sulla scena in un contesto metafisico ed irreale, che si parlano come nei sogni, quando non si saprebbe dire se le parole sono dette o solo pensate, interiormente o ad alta voce. Costruire insieme agli attori questa sinfonia siciliana doveva essere molto intrigante, e così è stato».

Ph. Rosellina Garbo

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