di Cristina Polli
La misura è sempre precisa e sempre eccedente. Precisa per maestria, per scelta, per cura e accuratezza. Eccedente per una sua intima, connaturata essenza, che la fa atto di creazione nel momento in cui lo sguardo, la voce, il gesto la poggiano sul mondo perché l’esistenza di questoabbia forma. La misura è un dialogo antico tra l’uomo e la percorribilità del mondo, tra l’uomo e l’avanzare dei giorni.
La misura poetica è lo sguardo e la voce che ci accoglie in questa silloge di Anna Maria Curci (Nei giorni per versi, Arcipelago Itaca 2019; prefazione di Patrizia Sardisco): nello spaziotempo di quartine di endecasillabi si aprono prospettive di una vita vissuta, senza risparmio d’impegno, nel calibro dell’ironia.
La quartina iniziale si apre in accenti di luce crepuscolare, un sipario in chiusura sulla resa all’impossibilità di risolvere il giorno se non tramite una scelta radicale. Dietro si indovina il mondo accolto nell’interiorità:
I
Come un accento a voce claudicante
balza e s’arresta il limite del giorno.
Taglieggia tra le sdrucciole e le piane
e tronca si riveste soluzione.
Ciò che sembrava la fine si volge in principio: si susseguono scene di una vita di ricerca e affetti nei moti del cuore e dell’intelletto, una vita attiva che procede per coinvolgimento e riflessioni mai scontate:
LXXXVI
Mi rivesto da donna questa sera
(non vergognarti d’esser solo umana).
L’ampia gonna in tessuto marezzato
coprirà sbucciature di ginocchia.
Qui e altrove si rivela, accennati o dichiarati, il ruolo che l’io poetico assume, se ne scorgono coerenza e collocazione. Chi legge da più tempo la poesia di Anna Maria Curci conosce uno dei suoi alter ego nella serva di scena, colei che sostiene le corde della rappresentazione appuntando trepidamente gli spilli alla veste del primo attore – di quante prime attrici! alla ribalta. Come la serva di scena, il portatore d’acqua della quartina V resta in disparte in accettazione pensosa e consapevole del suo compito e della sua sorte: «Al portatore d’acqua non si chiede/ di narrare di sé della sua fonte.» Farsi da parte è virtù di chi insegna, di chi mostra il cammino e incoraggia, di chi si assume la responsabilità di accompagnare. Si mette in conto l’oblio, ma anche il dono della gioia:
XIX
Entusiasti mi strappate un sorriso.
I polpastrelli nella tinta rosa,
le fronti fieramente corrugate,
la bottega di sogni a cielo aperto.
La misura non è stabilita solo dalle quartine nella loro cornice di accenti e ritmi, è connaturata alla distanza, alla luce che permette la scelta. Lo studio, accurato e appassionato, intreccia e sbroglia le corde di cuore e percezione sulla trama e l’ordito della cura. Bisogna accettare, come accade qui, che la luce cada e si diffonda da un altro luogo, che sia proprio questa luce ad allacciarci alla visione perché sia possibile l’esercizio dello sguardo e possa sopraggiungere l’ironia che riconduceall’umana accettazione degli eventi e della parte che l’io poetico si è assegnato. Mai la resa, mai l’adagiarsi nei panni comodi dell’ottusità:
XXIV
Non ho mai fatto il cambio di stagione.
Libri sghembi e vestigia ammonticchiate
sono compagni d’ore e d’omissioni
schedari e fusciacche d’altre sfilate.
La voce si conferma bella, lo è per grazia e per virtù, e la poesia si modula nell’attraversamento delle distanze, piantando puntelli a cui aggrapparsi negli inevitabili indugi e scoramenti. Si fa scelta di attenzione e ascolto, devozione alla parola, ricerca del sentire autentico tessuto di empatia e sapienza. La poesia di Anna Maria Curci misura l’uomo e il mondo, pone la gettata sulla distanza dai sogni e dagli ideali traditi, divenuti merce di consumo: «Compra vende baratta contrabbanda/ la nuova strategia dell’effusione» (XXVII); conta i passi fino all’aspirazione al vero, fino all’anelito alla trascendenza, alla preghiera che splende nella polvere, alla polvere che quotidianamente ci chiama al dovere e al privilegio della ricerca. E la ricerca non è rifugio, ma apertura e dono:
CLXXII
Arrivano così, le note liete
novelle di attenzione e di tenacia.
Legge qualcuno, e studia, e si ricorda
che tradurre e formare vanno insieme.
Un diario umanista di voce incarnata, un diario che pone al centro l’essenza dell’umano nella ricerca di verità e bellezza. Uno dei richiami più solidi è quello agli spiriti affini, un richiamo al risveglio, non esclusività, quindi, ma diffusione che si nutre e nutre degli innumerevoli riferimenti ai poeti e agli autori amati e tradotti, antidoto al male dell’incuria, appiglio contro la perdizione, la falsa bellezza a buon mercato:
LXXI
Ma noi abbiamo verità e bellezza
o almeno ci illudiamo, costeggiando
increspature, balze, lidi altrui
d’essere immuni dalla perdizione.
In questo diario in versi l’umanesimo è anche presenza del corpo, corpo reale, corpo che misura, immagine del sé che si proietta sulla distanza. Il dato umano è sempre presente e ci coinvolge nelle quartine dedicate all’effetto annichilente della paura che blocca e raggela, nella plasticità aggressiva in cui è ritratta la morte che “ghermisce” (CX). Velata di affettuosa nostalgia è la quartina LXV; una fotografia fissa l’immagine di un ricordo familiare che ora si svela, con apprensione e rinnovata tenerezza, come punto di svolta, iniziazione al “guado”:
LXV
E tu, minuta danzatrice assorta,
dalla foto rivolgi il tuo profilo
e all’indistinto tendi bianche braccia.
Le punte tendi ad intuire il guado.
La misura, data e presa, riconduce all’io nella sua umanità determinante di affetti e studio, alrimpianto malinconico per un dialogo poetico e amicale di reciproco riconoscimento: torna la seraannunciata nell’esergo: «Ti cerco nella sera sopraggiunta» (CXXXIII). La quartina dedicata a Narda Fattori prelude ad altra ricerca:
CLXXIII
Man mano che s’accende lume a lume
sostiamo nel silenzio che rapprende
lo squarcio all’improvviso rivelato.
Noi che veniamo al mondo lacerando.
L’ingresso alla notte si fa voce mistica della resa e dell’accettazione dell’essere e del fare irrinunciabile della poesia.