E’ appena uscito l’ultimo lavoro di Nicola Vacca, “Non dare la corda ai giocattoli” (Marco Saya Ed.). Vacca non conosce mezze misure sia nella scrittura sia nella vita di tutti i giorni, anche per questo ha una nutrita schiera di estimatori e al contempo di detrattori (farisei sepolcri imbiancati). Come articolo oggi vi lascio la prefazione introduttiva al lavoro, al quale auguriamo le migliori fortune letterarie.
Un lavoro duro, crudo, esasperato che esce a non molta distanza da quel piccolo gioiello che è “Tutti i nomi di un padre”. Vacca è un militante in prima linea della poesia, cosa ben differente da essere un presenzialista del mondo poetico. La sua attività critica è nota, come non ricordare ad esempio il suo “Lettere a Cioran”, su carta, sul web, a tu per tu con un pubblico, sempre vivo, della poesia.
In prossimità dell’uscita di questo “Non dare la corda ai giocattoli” ci avverte :
“ questo sarà il mio ultimo libro di poesie”. C’è da credergli ? I molti dubbi in proposito rimandano al pensiero pessoano, di cui Vacca è estimatore, ovvero che il poeta è un fingitore e come tale tende sempre a massimizzare i concetti e la voluntas, in un girotondo virtuoso di parole e idee.
Il percorso poetico vacchiano segue il filo dell’impegno civile ma non solo, anzi trovo riduttiva questa interpretazione. Lo sguardo dell’autore è sempre rivolto verso un abisso gelido, su detriti sbriciolati dalla disumanità dell’essere vivente. Non un nichilismo tout court o uno scimmiottamento novecentesco, ma una vera e propria classificazione dell’uomo come portatore insano di autodistruzione, in una ricerca masochista dell’infelicità. Quindi i temi affrontati sia in “Mattanza dell’incanto”, in “Luce nera” (che gli è valso il premio Camaiore) ed infine “Commedia ubriaca”, sono approfonditi e ampliati, portati allo stremo e, usando un gioco di parole, annichiliti.
Sotto i versi velenosi, caustici e icastici, si trova in realtà una ricerca semi utopistica, una risposta di speranza che all’apparenza manca. L’aridità del dettato ben rende l’atmosfera, nessun divertissement, nessuna autocompiacevolezza. È un dolore a basso continuo, un dolore differenziato rispetto a quello personale affrontato in “Tutti i nomi di un padre”. La tristezza universale è di tutti, il nulla è di tutti.
I giocattoli sono un correlativo pluricomprensivo; chiunque ha posseduto, amato e adorato un gioco e il ricordo o il senso di appartenenza ci fa sentire uniti nello smarrimento globale.
“ Tutto ha i minuti contati
tranne il disastro che dilata il tempo dell’abisso”
Talvolta sentenzioso, gnomico, mai però egoriferito o creatore di un verso falso. Vacca odia i falsificatori, i buonisti della versificazione, i sodali di combriccole che niente hanno a che fare con la poesia vera e spesso crudele. Non a caso oltre a Cioran appare introiettato ed esplicitato il pensiero di Carmelo Bene posto ad esergo dell’opera : “La trasgressione del linguaggio è trasgressione morale E di fatto, la poesia. non il poetico dell’anima bella – per dirla con Roland Barthes -, la poesia che è linguaggio stesso delle trasgressioni del linguaggio – la poesia è sempre contestatrice. Come Rimbaud.”
E tra un rimando ad Hopper (una delle sezioni migliori del libro) e considerazioni sulla finitudine moderna, Vacca ci avverte attraverso un messaggio forte, vero, spesso dimenticato per opportunismo o vigliaccheria: la poesia, la parola, possono essere di aiuto, di conforto nello smarrimento, nella rabbia nobile di chi non vuole arrendersi, ma attenti, i pericoli e gli agguati possono venire anche dall’interno.
Non abbiate paura dei poeti
sono i primi a scomparire
quando spergiurano le parole