di Ilaria Grasso
Siamo abituati alla rappresentazione dolente della distanza tra padre e figlio ma quasi mai di quella distanza e quel dolore riusciamo a prendercene cura e accoglierla in tutta la sua feroce realtà. In questo orizzonte di senso si collocano i versi di Antonio Scotellaro. Le parole, in questi versi, però, aprono a un’infinità di significati come capita fortunatamente nella poesia vera. Ogni sillaba è un gancio potenzialmente pronto ad appigliarsi a ricordi, sentimenti inespressi, rimossi esistenziali. Si avvicinano queste parole pericolosamente alla ferita aperta con precisione chirurgica. Non uso questo termine a caso. La scena madre ha come protagonista un padre in una camera d’ospedale nella fase terminale della sua vita. Se nella creazione di Adamo ci sono due dita vicine, in Scotellaro sono due lembi di terra estesa ancora uniti e che sempre lo saranno in altro modo. Leggiamo qui di un amore profondissimo e che a breve non potrà più essere accuditoin prima persona dal figlio a causa di una malattia incurabile. Non c’è ancora nessuna prefica all’orizzonte e il dolore è vissuto con compostezza e lucidità pronto a trasformarsi in altro. In amore persino…
ISTMO
Un istmo mi separò da mio padre
una striscia di pelle tumefatta dagli aghi ingenti
flebo di oceani d’acqua chemioterapica
Lo percossero a sangue gli uomini
È pieno di solchi e acini premuti
Gli hanno bruciato la pelle
arsi i tronchi e cute
Ci hanno radiato tutti in vita
ma il male neanche l’amore lo estirpa
carbonizzati lungo il litorale
una striscia di terra brulla
chiamata decubito
Fallì la morfina
e messa di fianco
il mare rovesciò l’imbarcazione
Nuotai fino al capezzale
coloro che le amano le mani
le metteranno nel cuore
È così magnanima l’onda di morte
con i fiori freschi piantati in noi
Tirò fuori la sua mano senza più presa
Sentii un sibilo una spia
la morte dicono sia un encefalogramma piatto
Lo curarono talmente bene
che lo uccisero
furono oculati
Loculo 76 cappella comunale
Da LA COMUNIONE DEI BENI – Andrea Pacilli Editore