“Una parola ha detto Dio, due ne ho udite”. Così ci viene trasmesso il dialogo tra uomo e divinità nel passo contenuto in Salmi 62,12. Per il popolo ebraico, la parola divina è essenziale, ed il suo significato è inesauribile; e similmente sembra muoversi La promessa focaia, poiché trova ragione su una parola detta, ascoltata e trasmessa, dimostrandoci che la cultura di cui è pregno l’autore è un’erudizione di dialogo e ascolto, di racconto e di relazione.
Tuttavia, il dettato dei Cornelio è molto più che conoscenza teorica di un impianto religioso rispetto ad un altro e, poiché “verità esige il convenire / dello strappo”, l’esperienza spirituale e va oltre la scelta polare di un moto fideistico. Parimenti, “in ciò che è soltanto / certezza nell’adempiere all’incenso, / e senza la ragione che chiara individe, / o la non fissità riformata in trasparenza”, nell’autore viene trasceso il concetto di fede ed assume carattere unitario superando ogni scisma perché, se “i simboli sono fessure”, la preghiera è assoluta e valica il limite della parola, insegnandoci il modo di leggere sé stessa.
I Maestri – ed il Talmud – sostengono che la Sacra Torah sia stata scritta da Dio con fuoco nero e bianco, il primo identificando le lettere ed il secondo lo spazio tra le stesse, le parole e le righe. E di questo è certamente memore Cornelio, quando ci consegna “dal chiuso, inesausta, di oscurità bruciata, e nondimeno soffiando aurora, tutta pazienta la promessa focaia”, in quanto lo spazio vuoto a cui possiamo assistere tra i versi non solo è da intendersi come unità metrica, ma è concettualmente necessario quanto lo spazio pieno ed occupato dalla parola affinché la completezza di senso possa unirsi all’atto di incidere quanto sfiorisce, trasmettendo l’unicità di significato e significante per renderla sempre più ricca e più profonda.
Ma non solo a questo si riduce la conoscenza dell’autore, che infatti non può non farsi ricco anche della produzione filosofica, teologica e mistica della cristianità; “e in questo sta l’arsione, / l’acerbo dono” di questa raccolta.
Del cristianesimo è soprattutto la non venuta, o meglio la venuta differita, che sembra interessare Cornelio – come indicato nella sezione “Compendiario all’edificazione” – quando individua il pensiero di Derrida per cui «Questa messianicità spoglia di tutto […] procede nel rischio della notte assoluta». E insieme a questo possiamo ben dire che tutta la mistica cristiana – o “la fabula mistica”, come direbbe de Certeau – sia (e sia stata) materia di profonda riflessione nella poetica dell’autore, come “la nostalgia celeste / che ci annoda l’arsura”.
Non a caso l’autore ci porta a riflettere nel senso per cui “conviene chiedersi – ciascuno malgrado l’offerta – /se meglio non / sia chiudere l’agire, smagrirlo nella clausura / ustoria che più non domanda / il compiersi e l’azione”, e così si manifesta la parola e la sua promessa, così potente da creare nel momento stesso in cui è pensata dalla mente divina ed alla quale puntuale giunge la risposta degli uomini che la trasforma ora in leggi, ora in poesia, ora in storia, ora in preghiera; perché “quando avremo cessato / anche l’attesa, / l’insediamento della scordatura” potremo “travasare nel / corpo il rotante congegno / d’un secondo battesimo”.
Così, poiché arde come “per incandescente” necessità, la poesia non può che arricchirsi di sfumature proprio perché stigmatizzata dalla sua “infermità”, e quindi imperfetta nel proprio disporsi in seguito alla contrazione genetica iniziale. Per questo al lettore è lasciato lo spazio per interrogare – cogliendo magari i dubbi che lo stesso Cornelio lascia non soluti, come ad esempio “come potrà il / nostro animale avverarne in sé / la riunione, una volta tagliate / le lettere, e l’evento che vasto / ne propagò il seguito?” – e per comprendere “il lavaggio / nel digiuno, il congedarsi dal progetto”, e dialogare con questa raccolta.
In questo il Nostro ci insegna che se la parola trattiene l’incompiutezza, perché la linea di continuità tra questa ed il suo significato termina la propria discesa nella creazione – anche se in maniera più coerente al linguaggio religioso è bene parlare di parola come contrazione – è corretto che il lettore possa chiedere “se legittima è la radice / dell’inchiostro”, perché la poesia di Cornelio non è mossa dalla pretesa di concludere in modo cattedratico queste questioni; anzi, “soffiando aurora”, in essa “tutta pazienta la promessa focaia”.
E la promessa che le parole stesse portano, seppur molto vicina alla lettura cabalistica da cui derivano i concetti di ritrazione, del trattenere il respiro, e insieme della rifondazione che solcano l’opera, non può non passare per la poesia, che ancora “non ha sperso la tenue gravità in firma d’obliquo”.
Il contributo fornito dall’autore si concretizza proprio nella poesia, perché la parola poetica “magari costringendo il sangue / alla smemoratezza, […] / per diserudire l’usato scrivere” può ancora restituire un’immagine di completezza della realtà, la cui unità appare come complesso strutturale caratterizzato dalla sopravvivenza delle forme, passando anche attraverso la frantumazione dell’ordine del linguaggio, perché è questo a soffrire se “ghiacciato era anche l’alveare / della sensatezza”.
Ancorandosi agli elementi tipici della tradizione rituale delle religioni abramitiche, ma ancor più oscillando tra restaurazione e de-creazione, il dettato di Cornelio ondeggia come il turibolo durante la funzione religiosa che trova concretezza nella poesia, nonostante su di essa si ostini “una cipria vitrea, un velo mitografo”.
Non di meno, “tra il chiarore e l’ustione” il lettore viene invitato ad abbandonare il luogo di culto – probabilmente intendendo la struttura a tutto tondo, per come ci viene tramandata – perché è “tempo di lasciare il sagrato”, e di dirigere i passi verso un nuovo modo di interpretare la complessità del mondo come l’autore stesso suggerisce, poiché “occorre impuntare l’eclissi / nel telaio oculare / per fissare la febbre / di questa separatezza” nel mutuo permettere “che la nube ti scuri l’immediato / di quanto è visibile”.
Come l’incenso viene esalato ed ascende, il verso fiorisce nella pienezza badiale della celebrazione poetica che transita per la speranza e “l’augurio di chiamare / segnatura / lo screpolarsi delle cose”, perché “ovunque” si manifesta “l’andare di scosse” inteso a “comporre il dissesto” di chi è costretto ad un “esilio”, che è “l’abitare un / commiato […], il modo / d’abbeverarsi / in un pozzo senz’acqua.”.
“La mistica è la vera Babele”, ci dice De Certeau; e ricco anche di questa nozione, Cornelio ci insegna che lo spazio bianco, così come il carattere nero, si consegnano come possibilità per rinnovare, se non anche per sovvertire, la logica disposizione delle cose. In quest’ottica l’operazione del poeta non può che essere “l’obumbrazione”, sperando nell’ombra ed invocando la sua velatura per celare il visibile affinché la dissomiglianza della parola rispetto a sé stessa risulti così evidente da poter porre in discussione il semema – perché “noi riposiamo addormiti / dentro il calcare dei primi nomi”.
Così come il Verbo può farsi carne, “se con / Verbo intendiamo / l’aculeo o la soglia”, la poesia deve rinnovarsi come parola che sia in grado di ricordandoci la messianicità come vita differita, che nulla è davvero acquisito né compiuto, e che, contrariamente al pensiero esistenzialista, nulla ancora è concreto in una vita non redenta, “non molata sopra la stuoia / della conversione”.
Carlo Ragliani
* * *
A Remo Pagnanelli
Verità esige il convenire
nell’albore dello strappo.
Fosse l’incrinatura talento o
germoglio, baderesti a piantare
erosioni per inginocchiarle alla
specie degli inizi.
(e non un presagio rimasto
inviolato, neppure
l’augurio di chiamare
segnatura
lo screpolarsi delle cose)
*
l’alfabeto inizia dentro
la sua preghiera di betulla.
Diceva:
un ragionamento d’orefice
è comunque un voto salino.
*
“Veder senza figura – la somma veritate
con la nichilitate – del nostro pover core.”
(Jacopone da Todi)
Via! Nessuno più spiegherà la
polvere a voce di candela,
nella tarda adolescenza del buio
igienico, del buio indormentato.
La dispersione è il solo mestiere
atto al poeta:
curarsi di obumbrare le parole.
Ecco la nostra Pyrosophia.
*
Generiamo senza dare vita:
questa la violazione nell’ordine esangue.
Certi rosari scuoiano la bocca,
perché così si fa senso nuovo, il farmaco
che non vedremo, e l’acqua salata in cui
bolle la nigritudine terrestre;
tuttavia -vada come vada-,
avremo forzato l’infinitudine entro il
rito fogliato del dissipamento, avremo
succhiato ogni sbadiglio dai monoliti,
o trovato serpenti incrostati di assenza.
In questo momento, lo spazio fra ogni
tua vertebra [ ] custodisce umile ortica,
e una scienza delle lettere.
*
Ovunque l’andare di scosse,
un venire a comporre il dissesto.
Questo frattanto che impastano
i rudimenti per le ossa,
e la nostalgia celeste
che ci annoda l’arsura.
Ad ogni modo -se guardi-,
l’erbario sotterraneo dell’impronta
adultera la discrezione serbata nella
pelle, e la mano
custodisce l’effigie che l’interezza
ha voluto coltivare
nel suo rovescio.
Noi riposiamo addormiti
dentro il calcare dei primi nomi:
erano già storti
all’imbocco, all’inguine,
e ghiacciato era anche l’alveare
della sensatezza.
*
“Poiché dunque non vedeste alcuna figura,
quando il Signore vi parlò sull’Oreb (…)”
Ecco:
l’effluvio delle parabole si dispiega
come antica discendenza, e nelle
nidiate cineree la lacrima
incomincia l’interno dello sguardo.
È un volersi sul crinale
tra il chiarore e l’ustione:
fai che la nube ti scuri l’immediato
di quanto è visibile.
Nessuna vivanda perentoria
fermenterebbe l’immagine,
ma sola aspettazione
della notte.
* * *