Dire che I ferri corti di Paolo Maccari (LietoColle, 2019) è un libro di guerra suonerà forse pleonastico, visto il titolo scelto dall’autore per la propria autoantologia. Ma non troppo. Certo, sarebbe facile chiamare a testimone, in tal senso, la primissima poesia in ordine di apparizione (da Ospiti, 1996-2000), dove il soggetto paragona se stesso niente meno che ai soldati greci frementi nel ventre del cavallo di Troia: «Come i guerrieri giovani nel ventre/ del cavallo di Troia si guardavano/ tra lame di buio e sorridevano/ […] (Così,/ io)/ sento nelle viscere un famoso/anonimo pugnale che mi svena,/ un conosciuto un ignoto tormento». Testo in cui, tra l’altro, Maccari svela subito il gusto per l’antinomia (si legga l’esempio appena riportato) e per una costruzione sempre al limite della forma chiusa. Ma in tutto il percorso poetico di Maccari, sintetizzato esaustivamente ne I ferri corti, non viene mai a mancare una prossimità, guerresca seppur disarmata, col male e col dolore: le «schegge/ acuminate di presagi e brividi», la pancia bianca e disgustosa dei pesci morti, la «scatola vuota» della morte. E poi quell’interrogazione stanca e severa («Ancora vagare? […] Ancora vagare, certo»), che non può non rievocare il Luzi dei Fondamenti invisibili e il suo, altrettanto guerresco, «Ancora combattimento?- /mi scrutavano in viso sui passi di frontiera./ – Ancora combattimento, ancora combattimento».
La rappresentazione del tragico e del conflittuale continuano ad animare i testi, pagina dopo pagina. L’io lirico è costantemente testimone di uno spazio esperienziale pericolante, incerto («Non è esattamente così, tra luci / flebili e incerte che combatte / l’eroe più valoroso?»), fino all’evidenza integrale del male, lo svelamento della malattia degli “ospiti” incontrati da Maccari durante il servizio prestato in una casa di riposo. Maccari piega il suo oggetto d’indagine ora ai rigori della forma (il sonetto), ora al respiro sussultante ed elastico della prosa; l’alternanza di prosa e versi in un unico componimento sembra quasi simulare la dialettica teatrale tra recitativo e aria, tra momento dinamico e distensione lirica. In Un colpo di reni, ad esempio, l’alternanza prosa – versi riesce a mettere in gioco, oltre che due diverse modalità di ritmo e fraseggio, anche una diversa disposizione di sguardo: se nella prosa il taglio è perentorio, quasi didascalico – «Le sbarre al letto sono necessarie, naturalmente, per un solo motivo: si presuppone che il malato – o il vecchio – siano destinati alla solitudine» -, nell’inciso in versi il dialogo è un “tra sé”, un ripiegamento: «Solo, evita i suoi occhi […] / In ogni caso sappi che non è rancore/ ciò che ricavi e ti danna/ è la gelida condanna/ di conoscere un simile terrore». Così, attraverso il “canzoniere” della prigionia (L’ultima voce, in Fuoco amico 1998-2007) in cui la voce si fa – ancora, e più che mai – memoria e testimonianza dell’alienazione, e fino alle più chiaroscurali pagine di Contromosse (2005-2011), la scena poetica di Maccari è sempre agitata da visioni inquiete, come nelle brevi “parabole” in prosa in cui sono le figure animali (Cigni, I modi della volpe, Il banchetto) a realizzare simbolicamente la consuetudine del male: «Mi lascerei indietro, soddisfatto, la gratuità del massacro». La vocazione al racconto, all’esposizione di fatti e situazioni reali e ordinarie, si palesa poi con ancor maggiore evidenza in Fermate (2014-2016), in cui cospicua parte di testo è occupata da lunghe sequenze narrative. In queste prose l’evento non viene registrato sotto la luce anfibia del “poetico”: Maccari non cattura l’immagine fotograficamente, in un unico inciso, ma la sviluppa, la distende per intero, quasi rispondendo al bisogno di “dire tutto”, non temendo neppure lo scorcio quasi autobiografico o la digressione.
La lingua netta, piana e cronachistica della prosa e – sul fronte opposto – il ricorso a forme metriche chiuse (l’autore stesso fornisce alcune precisazioni in merito, nella postfazione) e ad una scrittura alta e preziosa risultano registri apparentemente opposti nel bagaglio espressivo di Maccari. C’è, tuttavia, una coerenza di “tinta” e di timbri che difficilmente può passare inosservata. Ed è proprio il sussulto costante della parola, irruenta, mai sottrattiva e misurata. Una parola poetica che non trova riposo nella lingua rassicurata dello sguardo postumo: la poesia di Maccari sembra non ammettere alcuna tregua («E non c’è addio, non c’è morte che redima. / La resa è una tana, il riposo un recesso»), ma solo l’evidenza del male e del dolore.
(Emanuele Franceschetti)
Bagliori
A grande varietà di frasi
ho dato fede, a complessità di arpeggi
e a molti poetici, detonanti via-vai;
ho dato dietro a una grande varietà
di esaltati e di santi, di pifferai…
E nemmeno in un conato retorico
avrei ammesso mai
che potesse accadere ciò che è stato,
che scintillasse in un pazzo ottantenne,
nei suoi occhi, azzurri come spero
sia azzurro lastricato il viottolo
che batterà chi amo appena spento,
scintillasse, dico, tanta bellezza
in poco azzurro invaso dalle rughe;
eppure
il vecchio che ha passato gli anni
a slacciarsi i pensieri appiccicosi
e a riunirli in cumuli indistinti
è una scossa per me di purissimo stupore
come fin qui m’aveva dato solo, e raramente,
l’evidenza del male e del dolore.
I modi della volpe
Non so biasimare la strategia crudele della volpe, perché è la
mia. Anch’io non faccio calcoli. Non doso le forze. Se vedo
un’opportunità di gioia mi prende la foga. Riuscissi a
entrare in un pollaio, sgozzerei senza misericordia tutte le
galline, per poi mangiarne una.
Mi lascerei dietro, soddisfatto, la gratuità del massacro.
Un po’d’onnipotenza, per noi che ci arruffiamo la pelliccia
e il ninnolo della coda tra gli stecchi dei boschi, è quello che
ci fa trovare l’energia per tirare avanti la nostra fatica.
Ogni giorno assecondare il nostro istinto, e sempre meno
docili, più attente le prede che ci dominano con la loro
carne sapida di paura.
Ficcare i denti in un cuore in tumulto: è questa la droga dei
nostri tempi grami.
Rifarsi in pochi balzi dei digiuni.