“Fino al sangue”. Nota a “Per vederti fiorire” (CartaCanta editore, 2017) di Alessandra Fichera
«Raccogliete i pezzi avanzati, perché niente si perda». Questo il messaggio contenuto al passo sesto, versetto dodicesimo del vangelo di Giovanni. Passo che possiamo intendere non solo come raccomandazione intesa a richiamare la necessità di non sprecare la sovrabbondanza di ciò che, come si può leggere nel prosieguo di questo capitolo, è volto ad appagare la fame fisica di pane corruttibile; ma anche come insegnamento volto a stringere le cose, per mantenerle e conservarle, oltre il tempo e la memoria. Oltre il ricordo e la speranza.
In questo raccogliere le cose, gli affetti delle persone ed il loro ricordo per sottrarle alla consunzione del tempo, possiamo quasi intendere un moto connaturato all’umanità stessa – se lo assumiamo come modo di approcciarsi alla realtà da consegnare alla lettera, nel suo intento di mettere assieme i frammenti per dar loro una forma complessiva alla produzione letterale.
Per questo, memori del virgiliano “hic opus, hic labor”, non è cosa di poco momento strutturare una posizione nei meriti di una collezione di poesie che investe la frammentazione della quotidianità vissuta nello sforzo (o spontaneità) di cui si fa portatrice Fichera, perché la sua poesia non si può non intendere come fusione dell’io lirico alla parola, poesia il cui verso continua a sciogliersi per non distinguersi più dal grido tellurico, dal pathos plutonico che riesce ad attraversare la materia a disposizione della Nostra, per poi donarsi come poesia – e corpo – trafitta dalla passionalità.
Profondamente grata alla “sacralità rituale” dell’esistenza e della vita a cui “non basta l’acqua” e, per questo, incline al sentimento del “tragico” di chi porta in petto il segno del pathos, il moto profondo dell’opera ricorda il messaggio di Paolo Ruffili, quando insegna che “… il senso è cogliere / staccare, strappare. / Di chi si gode la vita / ma anche ne è consumato”.
In modo simile possiamo orientare il dettato dell’autrice, quando ci insegna a racchiudere nei versi i brandelli di ciò che viene salvato dalla gola del leone. Questo moto si coglie di più quando la parola è intesa alla non perpetuità del presente, o alla memoria della rovina consapevole, perché “la vita è fatta di piccoli frammenti di inferni”; e “non c’è presenza […] che raccolga il sangue”, “e non c’è verso adatto per parlarne”.
Per vederti fiorire – e come da titolo, ci si aspetta una infiorescenza, un darsi iniziale che si concretizza tutto nell’aspettativa di un fiore – sembra essere il suolo fecondo da cui il dettato dell’autrice trae origine, e si orienta verso una dottrina dell’esistenza per cui il messaggio contenuto nella parola si orienti come una forma di resistenza, in cui Fichera ricorda con un monito rivolto tanto a sé stessa quanto al lettore: “ma io ci sono”.
La silloge si compone di tre parti, un trittico in cui si magnifica la celebrazione dell’attuale concretezza quotidiana della realtà per veicolarsi in una poesia che sembra assumersi tutto il peso di quanto viene percepito dalla poetessa. O meglio: il rapporto di profonda simbiosi tra io lirico ed autrice – dalla cui unione contemplativa (e commovente) entrambi traggono una visione del mondo per cui conviene cogliere la suggestione di colligere fragmenta ne pereant di cui sopra – tutto si manifesta nel sacrificio insito alla parola, poiché essa sembra lottare per sottrarsi alla cancellazione dell’oblio; auspicando di poter salvare qualcosa, “che alla chiamata, qualcuno risponda”, risultandone comunque sfregiata, portandone la cicatrice che “taglia la faccia”.
Sembra di poter individuare che gli occhi dell’io lirico siano “de facto” gli occhi dell’autrice; e la pelle che contiene il verso per portarlo in petto non si riesca a distinguere dalla pelle della poetessa. O meglio, poiché “la cesura tra” scritto e vissuto “è stata abbattuta”, non si può che dire che quella pelle sia sottile, e che ciò che viene percepito emerga come autenticità dalla poesia, seppur con cadute e momenti magari patetici, perché troppo umani, e fragili.
Ma proprio per questo vivi, pronti a incarnare “il qui e l’ora”, anche “il tempo dell’addio.”
È “tra le mani / in un maggio perpetuo” che pulsa il senso di appartenere che articola il dettato dell’autrice, la cui genesi affonda le radici nella sicilianità della medesima, che non solo le ricorda la necessità di possedere più che volere (da cui poi di fatto discende lo sguardo che trapassa la materia ed il grido tellurico inscindibile dalle mani della poetessa) ma che anche si estende fino ad esaltarsi nell’ossequio famigliare – come dimostra la dedica del libro medesimo, a là una sorta di nido pascoliano – in cui l’autrice tende ad unirsi nella quotidianità all’unità familiare tipica di cui è intrisa l’opera.
Rimestando un senso profondo di proprietà alla cultura di provenienza, fondamentale è il panorama sociale e geografico della Sicilia in Fichera, che si immerge continuamente nelle trame di meridionalità – come ad esempio il mercato lungo “Viale Autonomia” di Caltagirone richiama negli occhi della poetessa la vucciria di Palermo – fino a testimoniare questo con le inflessioni vernacolari per cui “‘a paura r’a fera o luni ti manciava vivu”.
In Per vederti fiorire – e presumibilmente dunque anche nel quotidiano dell’autrice – “liturgia” e formula entrano naturalmente nel dettato e trovano giustificazione “nell’ombra di un sorriso” e nella tenera naturalezza con cui l’insegnamento viene tramandato ed accettato – perché del resto, “la domenica è il giorno del Signore” – “nella preghiera, nel silenzio, nel rito /sempre avanzando in ginocchio”. Il che fa pensare che Fichera, come diceva Raboni, faccia propria quella “bellezza estetica del Vangelo” per cui sia concesso riallacciarsi alla cultura che sta perdendosi.
Per questo, in Per vederti fiorire i riferimenti alla fede non sono casuali, perché i rimandi si dispongono come elemento fisico di venerazione (come ad esempio l’icona, il fico, la via crucis al sabato, il concetto di verginità, la cena del Cristo, il segno della croce, il rosario, Gerusalemme, il passo dallo Shir ha-Shirim Rabbah) dimostrandoci che sono radicati non solo come cultura – se non anche fede – ma anche come fattore proprio della trama dell’opera, al punto di esporsi come elemento estetico di questo ciclo di poesie, la cui presenza sembra intendere più una speranza lancinante (“Io spero nel miracolo, lo chiedo a piene / mani all’altare di ogni notte.” ) che una certezza assoluta, perché “la metafisica colma solo le distanze / di chi attende le salvezze”.
“Sono più i dialoghi muti” quelli sottesi tra pagina e pagina e che possiamo immaginare essere alla base del pensiero che intesse l’opera. Dialoghi in cui il verso dell’autrice si radica per fiorire nella più profonda speranza che il bello, ciò che è “colmo di grazia”, possano emergere dalla rovina costante come un flusso che trova foce nel mare. La voce di Fichera, in questo, si fa portatrice di una corporalità che è fragile – come lo siamo tutti – e non può che attestare la memoria di ciò che è stato, e rimanere per resistere.
E così, ogni poesia in Fichera sembra essere isolata dal resto dell’opera, destinata a testimoniare tramite la carnalità delle parole un sistema ipostatico in cui, per definizione, il numero dei vincoli non è sufficiente a garantirne l’equilibrio – come un fotogramma può essere estirpato dal suo contesto. Tuttavia il risultato di questa operazione sarebbe separare un istante dal proprio contesto originale; rendendolo sì fondamentale in potenza, ma privo del valore “a cui nessuno fa caso” dell’opera globale, che solo si ottiene cucendo col successivo ogni componimento – come gli istanti che si susseguono a provare “il peso del cuore” – “fino al sangue”.
Carlo Ragliani
* * *
Dove aspetteremo quando l’amore non arriva.
Come guariremo le ferite.
Antonio Gil, I luoghi andati
La mano che cerca la spalla
sottende il ritmo segreto del sonno.
Io che gioisco anche della tua sola
quieta distanza di ombelico
dell’avere il tuo fiato
incastrato tra le ciglia.
*
Fumi liquidi scenderanno
al momento della resa
dagli antri cavernosi
e ricomincerà la conta
il passaggio del tempo spezzato
verrà finalmente guarito.
*
La morte della vergine
Eravamo tutti attorno a quella bambola
a toccarne per l’ultima volta la dolcezza
a sistemare i capelli
mettere il rossetto
spruzzare il profumo.
Morivano le labbra tumefatte
sotto quel rosso fatale
e gonfio era il ventre.
Non più un respiro –
non più un nome
da quella bocca che tanto aveva riso:
sembrava solo un lieto ricordo
le ore di sole lontane dal letto
le candeline, i compleanni
e ogni anno la preghiera
di ritrovarti sempre.
*
Bologna
Adesso che il tuo cuore
perde battiti, dal mio
adesso che il tuo cuore
si allontana e che la calma
verde dei tuoi occhi trascolora.
Ho le mani vuote di fronte
al vetro che esala il respiro
nel ritorno; appena ieri il volo
dell’arrivo, l’impellente primavera
del fiore che decide di sbocciare,
la città pronta al nostro vorticare
le porte aperte, le lenzuola bianche.