Recensione di Felicia Buonomo
«A te che sei
anche quando credi
di non essere più».
È necessario partire da questa dedica in esergo, per capire il lavoro fatto da Lorenzo Mele con la sua raccolta poetica “Dove non splendi” (Controluna). È chiaro fin da subito il percorso in cui vuole accompagnarci, fatto di assenze/presenze, abbandoni/ritrovamenti, di un esserci per chi è altro da sé, o per e in sé stessi, «Oggi non te ne andare, non esitare a esserci – restaci».
E poi il silenzio, («Anche il silenzio mi parla al posto tuo / quel silenzio che ti è caduto giù dalla tasca»), questo astruso e invalicabile concetto che Mele esplora con fare dolce, senza mai scadere nell’autocommiserazione; e che ricorda il tocco poetico di Chandra Livia Candiani, quando ci narra delle carezze di silenzio che ci vengono spedite.
Il “gioco” dell’esistenza (che trascende dalla sua semantica, finendo nel baratro del non divertimento) procede per ossimori nel canto di Lorenzo Mele:
«Mi basta credere che esisti
per farti carne e ossa
qui davanti a me.
Tu sei tutto quello
che non siamo potuti essere
adesso che non sei», ci racconta il poeta, raccogliendo – ci piace pensare – l’insegnamento poetico di Attilio Bertolucci e la sua “assenza più acuta presenza”. O quello della parola filosofica esistenzialista di Heidegger che nel suo toccante carteggio con Hannah Arendt parla di ombre e luce (“ci sono ombre soltanto dove c’è il sole”). Così il poeta ci introduce al concetto di morte, che sia del corpo o del concetto legato al corpo, poco importa. E lo fa senza pietismo, lo fa dando peso alle parole, spostando il baricentro dell’attenzione dal sé, al dire:
«mi hanno detto che tra le ombre
resistiamo un po’ di più
e questo tu lo sapevi bene,
talmente bene
che sei morta per esistere».
La funzione primigenia del sentire interiore traslata all’esterno sulla carta, rappresenta l’esercizio di maestria operato dal giovane poeta, che tenta l’impresa di arrivare alle nuove o giovani parole, tenendole «tutte qui / sotto al cuore, / dove la polvere non arriva / e la luce non consuma».
Il tema della contrapposizione tra luce e ombra permea tutta la raccolta: buio e luce della vita, che si reclama e a cui non si vuole rinunciare. E che passa per la parola eletta: «Io voglio soltanto dire, / soltanto dire, / dire soltanto per non morire». È proprio come il poeta ci dice, la sua voce ci «sbuccia lo stomaco» (nota di lode il ricorrere a questa immagine metaforica di rottura, inaspettata).
«Questo è quello che resterà di me:
un continuo sperperarsi
in fogli di vento: un silenzio», ci dice il poeta. E noi gli rispondiamo che a rimanere saranno le parole, le sue proprie, e quelle universali della poesia, che mai si spreca nel suo esserci. E aggiungiamo che continuare a dire è un po’ come annientare, ma solo per poter tornare a dire: ogni parola è parola infante, intrisa della gioia della scoperta. Lorenzo Mele – magari inconsapevolmente – ci invita alla rivelazione. E noi ci ritroviamo in nuove geografie, con occhi pieni di stupore.
Felicia Buonomo
«Quasi quasi sono contento di soffrire,
di approdare sulle terre della nostalgia.
Il dolore fisico mi dispiace,
ma c’è qualcosa di più grande
nella sofferenza interna,
quella dentro al cuscino,
qualcosa che mi fa sentire vivo.
Preferisco vivere nell’inquietudine,
nella follia dei giorni,
che restarmene inchiodato
alle pareti della noia,
dove non batte né sole né ombra».
Lorenzo Mele
Da “Dove non splendi” – Controluna