Sfruttando l’opportunità di leggere l’ultimo libro di poesia di Alberto Cellotto, Non essere (Vydia, 2019), insieme alla sua precedente opera di narrativa, Abbiamo fatto una gran perdita (Oèdipus, 2018), non sono in grado di aggirare il fantasma della comparazione tra generi diversi. Fantasma che, in questo caso, è già stato affrontato in precedenza da Laura di Corcia sulla rivista online La Balena Bianca, con un’enfasi peculiare su quella “fenomenologia quotidiana”, nella scrittura di Cellotto, che intende essere “accogliente rispetto alla registrazione dell’esistente, pur sottolineandone le asperità e le falle, le zone di inciampo”.
Tuttavia, nella stessa recensione si evidenzia anche, a proposito del romanzo epistolare uscito per Oèdipus, “la qualità di una scrittura che desiderava soprattutto essere piana” – con l’uso, dunque, di un imperfetto, qui sottolineato in corsivo, che interpreto non soltanto come una necessità grammatical, nel contesto della recensione, ma anche come la spia di qualcosa d’altro: la “paziente ricerca delle cose visibili a partire da quelle invisibili”, sempre sottolineata da Laura di Corcia, si risolve infatti in una tensione che non di rado si rivolta proprio contro quel dire piano, quotidiano, paziente.
Nella mia lettura, la poesia di Cellotto non propone mai un dettato pacato o rappacificato: il titolo – basato sulla proposta descrittiva e, al tempo stesso, sull’imperativo costituito dal Non essere – può esserne già una prova. Da un lato, la prospettiva sembra essere quella di un io lirico ridotto a presenza minimale, residuale, quasi impercettibile, che dà luogo a “una tenera imitazione della vita / […], un regesto presto scorso o dimenticato” (p. 17), in misura uguale, o anche maggiore, rispetto alle occorrenze più triviali della lingua. [Sia detto en passant, nella scrittura di Cellotto ci si trova costantemente di fronte a una sorta di understatement rispetto alle possibilità della pratica poetica, in un processo che appare di segno diametralmente opposto a quelle tante “terapie poetiche” che oggi risultano sempre più, e sempre più colpevolmente, diffuse – come si può leggere anche a pag. 42: “So che non è così, che se avessi / chiesto sarei stato io l’unico muto, di storie e giorni”…]
D’altro canto, vi è però una rivolta che, a tratti, è pensata e costruita (e insieme decostruita fino a toccare le soglie dell’impensato, dell’ineffabile), a tratti è immediatamente viscerale: l’ostinarsi a dire “tengo, / tengo e tengo” (p. 18), che è stato rilevato anche da Maria Anna Mariani nella sua bella e sapientemente concisa prefazione, o la chiusura del testo a pag. 41 – “alle tre della notte lo stomaco con le sue lame” (p. 41) – ricordata anche da Laura di Corcia.
La doppia velocità è forse imposta dal rapporto con il paesaggio, secondo un continuum che va dall’annotazione aforistica – “I paesi sono rimasti dov’erano” (p. 19) – alla constatazione del suo disfacimento, o meglio del suo proprio non essere – si veda ad esempio il “non so dire dove” che chiude la poesia a p. 49. Nonostante sembri forte il legame, tanto culturale quanto stilistico, con Dietro il paesaggio (1951) di Andrea Zanzotto, la scrittura di Cellotto sembra individuare chiaramente il suo paesaggio, con un forte radicamento in quelle lanche del Piave che sono evocate più di una volta – non per caso, si tratta di zone di acqua stagnante, meandri “morti” del fiume, eppure ribollenti di vita postuma ed estrema, nella generalizzata marcescenza (una nuova palus putredinis?) – e sfuggire, al tempo stesso, a qualsiasi localizzazione certa, dato che “Non c’è quasi più traccia d’accento, tutta sciacquata / da anni la lingua dei fiumi d’Europa” (p. 48).
In altre parole, in questo libro di Cellotto mi sembra che il lettore, come il poeta – son semblable, son frère – siano inevitabilmente consegnati “al luogo scemo che c’è” (p. 76), ma questo non fa che amplificare il giro a vuoto della parola poetica, com’era anche senza destinatario, nel segno dell’atto mancato, il romanzo epistolare “a senso unico” Abbiamo fatto una grande perdita. Altrettanto ineludibilmente, in ogni caso, “c’è l’altro, esiste / sempre altro se guardi, appena fuori da un muro bagnato / e chino come il lampo sotto il vento” (p. 66), un’alterità che scompiglia le carte e fa ulteriormente inciampare il dettato prima che si accomodi all’interno di una scelta – che sarebbe, di per sé, fin troppo agevole – di stile.
A questo punto, il problema del realismo è posto e al tempo stesso superato, poiché può dirsi unicamente legato alla presenza di un “trapano nella scena”, cioè di un elemento quotidiano che irrompe come i “sogni fatti nella nostra materia”, in uno dei testi forse più rappresentativi del libro, pur nella sua anomalia stilistica iniziale: “Perché ci fosse un trapano nella scena è un problema / del realismo. Era un trapano senza filo. (Sono i sogni fatti / nella nostra materia.)” (p. 69).
Pretendono di restare, quei sogni, e forse non sono nemmeno.