Recensione di Felicia Buonomo
Se è vero che la poesia ha il pregio – o il difetto, per alcuni – di essere ermetica, lasciando spazio all’interpretazione del lettore, è anche vero che il dire in versi, quando diretto, seppur metaforico, ha una potenza che apre (per contrasto) la porta della profondità. Il merito di Paola Silvia Dolci, con il suo “Bestiario Metamorfosi” (Gattomerlino) è di saper camminare su entrambi i percorsi di questo bivio, senza mai risultare confusa.
A metà strada tra prosa e poesia – che non conta la forma, quando la scelta stilistica delle immagini a cui si ricorre – la Dolci ci accompagna nelle sue – o quelle di chiunque altro – geografie interiori. Perché non sempre l’io lirico coincide o meglio deve ontologicamente coincidere con la biografia. Anzi, se la poetica è riuscita, c’è nel dire poetico una sorta di astrazione dal sé, per arrivare all’universale. Il poeta è un fingitore, diceva Fernando Pessoa, e a questo si attribuisce non solo la volontà del poeta di distaccarsi dal suo io, ma di rendersi voce universale. Impresa che tutti i poeti dovrebbero tentare. Perché, che lo si confessi o no, esistono insospettabili pronti «a ricevere uno schiaffo», che continuano «a non capire cosa significhi sentirsi amati». Insospettabili che continuano «a sognare di dire la verità, e non essere creduta». E allora Bestiario Metamorfosi diventa un invito, a fare nomi, luoghi, al dire, ma a se stessi, non alla porta che si apre sui voyeur dell’altrui dramma.
Glossario di un dolore che non si ripiega mai sul se stesso crogiolante e vittimistico, che non è gioco di ruoli, quanto presa di coscienza del proprio io, la raccolta procede lungo la strada della metamorfosi attraverso la confessione di chi non riesce «a capire in quale modo le cose siano cambiate e dove mi stiano portando, e quanta voglia ho ancora di morire». La scrittura della Dolci procede per lampi brevi, ma tuona con la stessa potenza di un passato che riemerge e si fa presente, o che forse ridiventa presente rinnovato nei contorni, ma non nella sostanza. Dove anche noi, talvolta o di frequente, ci crediamo «la più bella perché la più indifesa», anche noi abbiamo un dottore – vero o metaforico, poco importa – che ci dice che «io lo voglio che mi vediate soffrire».
E chi sa di essere in quel “noi”, ma preferisce essere la parvenza dell’altro da sé, si senta più a suo agio nel coraggio di comprendere la propria personale e interiore condizione. Dica, a se stesso, per non assoggettarsi. Questo sembra essere l’invito della Dolci. O forse no. Di vero c’è il coraggio di un «cuore che ha sempre battuto più veloce del vostro». E la gratitudine del lettore.
«La nostra storia è stata simile all’annodarsi delle cime:
la cima del mio salvagente
si è annodata a quella del tuo salvagente.
E non ero più libera di andarmene».
Da Bestiario Metamorfosi – Gattomerlino