Una pamphlet-farsa sul ruolo della letteratura
e sull’eredità del marxismo:
QUISIVENDESTORIA – di Nevio Gambùla
“Quisivendestoria – Una farsa proletaria o un aborto di teatro epico” (Odradek edizioni, 2010, http://www.odradek.it/Schedelibri/quisivendestoria.html ) è un testo teatrale di Nevio Gàmbula che fin dal titolo esplicita il mood della scrittura.
La prefazione è assolutamente necessaria per contestualizzare la vicenda, poiché l’opera rimanda a due testi letterari (che non ho letto): il saggio “New Italian Epic” di Wu Ming 1 (Einaudi, 2009) e “Il padrone assoluto” di Gianni Toti (Feltrinelli, 1977).
Il primo viene definito “una sorta di manifesto sulla narrativa italiana” contro l’arte fine a se stessa, ed ha prodotto nell’autore un “fastidio” cui ha reagito con “l’irrisione” mutuata da Cuk-Utitz, protagonista dell’opera di Toti. Cuk invita a entrare nel baraccone di una letteratura “gratuita”, opposta a quella “curativa” di Wu Ming 1 (e, per estensione, dell’intero collettivo Wu Ming), che di fatto diventa, agli occhi di Gambùla, una pratica consolatoria.
L’irrisione dello scrittore prende la forma teatrale del dramma, ma un dramma raccontato con uno stile narrativo immaginifico e grottesco dal quale scaturisce la farsa. Per quanto riguarda il linguaggio scenico, l’autore precisa nella prefazione di aderire alla destrutturazione del dramma epico proposta da Heiner Mueller, con il risultato di produrre un teatro rappresentabile solo nel palcoscenico del cervello. Il testo, insomma, è più da leggere che da vedere rappresentato a teatro ma a mio parere sarebbe bellissimo goderlo da spettatore piuttosto che da lettore.
Fin qui la prefazione. Veniamo ora all’opera.
Atto Primo – Il proletariato senza rivolta.
Ci troviamo dentro al Museo della coscienza, dove un Visitatore e la Guida sentono “la puzza tremenda” di un baraccone che si muove. La Guida racconta di essere stata dentro al baraccone e di aver visto uno spettacolo al tempo stesso affascinante e fastidioso. Il Visitatore conclude che “sarebbe buona cosa andarci.”
Questa scena mi sembra preparatoria, presenta due dei personaggi principali e il baraccone, percepito in modo ambivalente, con “gioia mista a terrore”. Finora il lettore (o lo spettatore) non conosce la natura del baraccone (se non fosse per l’introduzione dell’autore), ma capisce che si tratta di qualcosa di potente, che scatena emozioni forti e contraddittorie.
Atto Secondo – Bunker Einaudi.
I personaggi sono Silvio Berlusconi e l’Editor di Einaudi, casa editrice per la quale pubblicano i Wu Ming e appartenente a Mondadori (di cui è proprietaria Marina Berlusconi, figlia di Silvio). L’Editor descrive a Berlusconi le qualità commerciali della bozza di Wu Ming1, definita “scrittura per illustrare e non per turbare”; inoltre, assicura Berlusconi che non gli arriverà nulla di negativo da parte di questa “liturgia della sinistra”, al contrario di quello che gli avrebbe provocato la pubblicazione di un altro libro, che infatti è stato rifiutato (il riferimento è a “Il duca di Mantova” di Franco Cordelli), ma sta avendo successo con un altro editore.
Nel dialogo tra l’Editor e il Cavaliere si ironizza sull’innocuità della scrittura di Wu Ming1 per l’impero politico-mediatico di Berlusconi. E qui apro un inciso. Ci tengo a ricordare che a quei tempi il collettivo Wu Ming era il principale fautore di una precisa e ben pubblicizzata strategia politica, ossia la famosa “lotta al regime dall’interno”. Secondo i Wu Ming, gli autori di sinistra avrebbero dovuto combattere il “regime” berlusconiano pubblicando per lo stesso Berlusconi: una boiata pazzesca, di cui nessuno ha mai chiesto conto in termini di risultati, ma si sa che a sinistra spesso si usano paroloni e concetti astrusi e argomentazioni cervellotiche per nascondere strategie o scelte che sono, appunto, semplicemente delle boiate pazzesche. E chiudo l’inciso.
La scena termina con il salvataggio di alcune pagine della bozza del libro di Wu Ming1 da parte dell’Editor, dato che molte pagine del testo sono state cancellate dall’acqua che sta inondando il bunker. Berlusconi, nel frattempo, ha avuto modo di affermare che “Li ho comprati tutti”, e che quel che conta è “mercanteggiare”.
In questo atto traspare chiaramente il giudizio politico-letterario dell’autore sul lavoro dei Wu Ming: il collettivo è stato inglobato, fagocitato dall’impero berlusconiano, che pure i Wu Ming credono di combattere. La valutazione di Gambùla sull’operazione commerciale e letteraria dei Wu Ming è doppiamente negativa: da una parte non si rendono conto di alimentare la dinamica del mercato che permette a Berlusconi di monopolizzare l’editoria, dall’altra credono di combattere una battaglia contro il “regime” con la loro opera letteraria ma in realtà usano un’arma spuntata perché la loro è una “scrittura innocua”, pertanto non arrecano alcun danno a Berlusconi nemmeno con i contenuti dei loro libri. Ed è proprio verso i contenuti e le tecniche letterarie dei Wu Ming che Gambùla manifesta la sua irrisione: i libri del collettivo esprimono la visione narcisistica tipica del “consumatore di cultura” in cerca di conferme del proprio “prestigio sociale”.
In definitiva, l’estetica dei Wu Ming, per quanto ammantata da cultura di sinistra, interpreta l’essenza della società dei consumi di cui Berlusconi è il prodotto più fulgido.
Atto Terzo – Il Cricot di Cuk-Utitz
Verona. Davanti al baraccone puzzolente si trova un Uomo di Merda, Cuk, che bofonchia parole incomprensibili. Il Visitatore della prima scena dialoga con lui, indeciso se entrare o meno. Cuk si presenta come un “imbonitore”, “Io l’autore e il personaggio senza narrazione” che si fa “qualche parola avvenente senza finalità, per puro godimento”. Il Visitatore viene a sapere che la scritta “Cricot” posta all’entrata del baraccone significa “Questo è un circo”, luogo dove le parole parlano con una loro voce, in piena anarchia. Il Visitatore è indeciso, non sa se entrare o no, perché di fronte al linguaggio barocco, pieno di neologismi di Cuk, preferisce un “registro medio”: teme che il linguaggio del baraccone sia troppo sperimentale. Cuk lo invita a entrare, a farsi “stuzzicare”, ma il Visitatore dice che entrerebbe se fosse invitato a una festa popolare “dove tutto si capisce subito”. E infine scopriamo che si tratta di Pier Paolo Pasolini.
In questo atto un Gambùla sempre più irrisorio e sardonico mette in scena la differenza tra Cuk (di fatto il suo alter ego dichiarato) e Pasolini. Di fronte al linguaggio personale, avanguardistico, circense dell’Uomo di Merda – Gambùla, Pasolini (forse un po’ troppo timido e pauroso) preferisce rinunciare.
Il riferimento storico e letterario è chiaro: Pasolini, che aveva iniziato scrivendo in romanesco, era contrario al movimento della NeoAvanguardia, al Gruppo63, e criticò il suo amico Paolo Volponi per la svolta di Corporale, libro in effetti quasi incomprensibile.
Gambùla in questo atto sbeffeggia il rifiuto di Pasolini per una letteratura dove non si capisce tutto subito: l’operazione è legittima anche se non mi sembra del tutto commisurata al carattere e all’intelligenza di Pasolini che, da scrittore e filologo, sapeva muoversi molto bene anche negli ambienti dell’avanguardia letteraria, odiando soprattutto la mentalità media, piccolo-borghese. È vero, comunque, che la scrittura di Pasolini non sia mai stata sperimentale ossia solidale con quella dell’élite letteraria a cui si vantava di appartenere.
Atto Quarto – Poetica della Contraddizione.
Nel cimitero di Londra, lo spettro di Marx, sbronzo, si aggira tra le lapidi, tra le quali spunta la sagoma dei Wu Ming. Marx vi parla, sostenendo di non aver trovato, nei loro libri “il conflitto necessario alla mia delizia: non ho trovato che personaggi stereotipati, monocordi… e si coglie l’assenza di una passione politica vera, necessaria, sentita interiormente.” Dopo aver lasciato gocce di piscia proletaria vicino alla loro sagoma, Marx inciampa nel Custode, steso a terra ubriaco, con cui fa conoscenza; poi i due uomini, non prima di aver scolato del buon whisky, ballano in tondo per cadere infine a terra, sempre vicino alla sagoma dei Wu Ming.
A questo punto, ha luogo l’invettiva finale: Marx, dopo aver chiesto ai Wu Ming “In che modo i rapporti di forza che si esprimono nel mercato letterario fanno lievitare le vostre parole?“ conclude in modo perentorio affermando: “Scrivete quel cazzo che volete ma lasciatemi in pace… Voi, con il vostro atteggiamento del cazzo, non fate altro che confermare il meccanismo che ho combattuto per tutta la vita” e prendendo a calci la loro sagoma “con rabbia proletaria”, arrivando infine a distruggerla.
Il giudizio di Marx-Gambùla sulla letteratura dei Wu Ming è di condanna piena, e senza appello. Il Collettivo, al di là delle apparenze, tradisce lo spirito, la ragione d’essere del marxismo. E l’autore, in questo atto-manifesto, forse l’apice di tutta la farsa, ha il merito di mitigare, trasfigurare la sua condanna con un linguaggio scenico sontuoso e sgangherato allo stesso tempo, cui avrei molto piacere ad assistere come spettatore. L’immagine del Marx ubriaco che prima piscia sulla sagoma dei Wu Ming, e poi la prende a calci fino a distruggerla, è impagabile e giustifica da sola lo sforzo creativo di questo dramma virato in farsa. È una visione sublime (detta alla Callahan), che personalmente mi dà il godimento orgiastico che l’autore attribuisce alla letteratura del carrozzone.
Atto Quinto – Le scimmie di Kubrick.
Nel bunker Einaudi inondato, degli ominidi trovano un monolite alieno. L’immagine richiama subito alla memoria quella di “2001 – Odissea Nello Spazio” di Kubrick, e il titolo esplicita il parallelo. Gli ominidi, girandogli intorno, si interrogano sul significato del monolite, formulando svariate ipotesi con eccitamento sempre maggiore: si assiste a un rito magico con un crescendo parossistico che culmina nella masturbazione di gruppo al grido di “Tutti – Uno”.
Al termine, gli ominidi si dispongono in cerchio ed esprimono le loro opinioni sul libro di Wu Ming1. Berlusconi compare per compiacersi della discussione creata dal volume, e l’Editor gli spiega il segreto del successo (per esempio citare qualche data che tocca il cuore). Dopo, dal monolite esce una luce e infine una voce che accusa i Wu Ming di essere funzionali al potere, facendo poi un’autocitazione ironica (“Che fico criticare i Wu Ming da sinistra e dar loro dei servi sciocchi”).
A sorpresa il monolite va in mille pezzi e l’Editor esulta, vedendo in tutto questo i frammenti di un “oggetto non identificato” (con riferimento alla definizione che i Wu Ming danno al format delle loro opere narrative) e uno sballo epico: un ottimo prodotto commerciale: “Qui si vende storia”.
Questa scena ha una grande potenza iconica, e sarebbe spettacolare vederla rappresentata a teatro. Gambùla riesce a prendere il significato simbolico del monolite di Kubrick, metterlo al centro di un rito magico dove si declamano i poli della dialettica marxista tra l’individuo e la massa, e infine dissacrare l’oggetto totemico del monolite per sparare sentenze sia sui Wu Ming sia sull’operazione che lo stesso Gambùla compie nei loro confronti. E tutto questo, tramite le considerazioni dell’Editor, si trasforma in merce dall’alto valore commerciale, viene cioè inglobato nelle logiche del mercato. La creatività della farsa qui raggiunge uno dei suoi apici, avvalendosi di una scrittura allegorica fin troppo densa di significati ed immagini.
Atto Sesto – Diario di un bolscevico
Il baraccone è nei pressi di un bosco, e la Guida porta in braccio un cadavere di donna. Intorno, corpi appestati sono appesi a ganci di macelleria. La Guida parla dell’abbandono della casa natale e dei suoi viaggi, dalla Sardegna a Torino, per poi approdare a Verona (un riferimento autobiografico). Il cadavere di donna a un certo punto si anima, e spunta (ironicamente) una “bellissima” Rosa Luxemburg (la Luxemburg non brillava per bellezza), la quale riprende il discorso della Guida, e ingiunge che “se volete conservare la vita dovete partire.” Restare significherebbe ritrovarsi “nell’inganno o nelle barbarie”, parafrasando il celebre motto luxemburghiano di “Socialismo o barbarie”.
Il coro degli appestati inneggia a lasciare la città dove regna la peste e a fuggire.
Questo atto può destare perplessità nel lettore (o nello spettatore), poiché sembra disomogeneo con il resto della narrazione, ma l’effetto credo sia voluto: è probabile che l’autore volesse spostare il tono del racconto dal registro grottesco/umoristico a quello lirico/retorico, se non malinconico. In termini di contenuti, il pezzo si discosta dalla narrazione principale, e sembra una storia dentro la storia, ma probabilmente mi sfuggono rimandi e connessioni con il corpo centrale dell’opera.
Il testo assume i contorni dapprima di una (auto)biografia, e poi di un proclama, è il comando a lasciare la propria città natale, ormai in rovina, appestata, per costruire una città nuova. Rosa Luxemburg sembra un profeta che, al pari di Mosè, vuole portare i corpi degli appestati in una terra promessa, ma ancora da costruire: la terra nuova del comunismo, immagino, anche se i riferimenti politici e storici sono frammentari, essendo la scena permeata da un linguaggio lirico.
Atto Settimo – Una polemica in versi
Citando il famoso poema di Pasolini che critica la nomenclatura del PCI, Gambùla torna nel cimitero di Londra, dove il Custode declama allo spettro di Marx, intento ad abbrustolire la carne di un gatto, il suo poema in versi. La recita prosegue per lungo tempo, trasformando il Custode, finora personaggio secondario, in una specie di eroe romantico. Al termine della declamazione, Marx gli consiglia di scrivere solo per se stesso, e di “trasferire la sua disperazione dalla parola alla vita.”
L’ode del Custode è il testo più criptico della farsa. Qui Gambùla più che citare allude, e non si cura di essere intelligibile al lettore. Il canto assume il tono dell’invettiva, ma è difficile scorgerne nitidamente l’obiettivo primario, che comunque resta la Nuova Epica Italiana dei Wu Ming (“fiaba esotica per adulti in ciabatte”), applaudita dalle masse per via del suo “potere curativo” (“In pochi sputavano invece”). E l’atto di sputare torna a più riprese nel poema del Custode.
Con il sesto e il settimo atto, il testo prende nuove direzioni. L’autore, dopo aver agito in profondità sul tema centrale dell’opera, sceglie di ampliare il discorso, prima con una scena collettiva invocante l’esodo verso una nuova città ancora da costruire, poi con un poema che si scaglia contro il saggio di Wu Ming1 con un sentimento di rabbia mista a sdegno e disprezzo. Il mood rabbioso non trova riscontro negli altri atti e qui è volutamente celato dai versi oscuri del poema che, non a caso, viene recitato (la precisazione è dell’autore) senza enfasi, come farebbe forse Carmelo Bene.
L’autore opera quindi una dissociazione: invece di aggredire il saggio di Wu Ming1 con una polemica esplicita, preferisce recitare un poema prolisso ma allo stesso tempo ermetico, cifrato, e senza enfasi. Ne scaturisce, nondimeno, una rabbia implosiva di grande potenza. Che subito viene reindirizzata da Marx: meglio trasferire la disperazione nella vita. Ma questa volta Marx sbaglia, non è la disperazione a permeare il poema del Custode, che termina con “Resistere alla lode isterica questa è impresa etica”.
Atto Ottavo – La cognizione e il dolore
Parafrasando Gadda fin dal titolo, in questo atto ci troviamo nel bunker Einaudi, addobbato a “tribunale della letteratura”, dove Berlusconi è giudice supremo, consigliato dall’Editor. L’imputato Cuk-Utitz, Uomo di Merda e “comunista barocco”, deve rispondere del suo operato, e rende una dichiarazione spontanea dove ammette di “non tramare fabulas… né fare dramma della storia. Non ho bisogno di vicendiare, io.” Viene qui espresso, con poche ma pregnanti parole, il manifesto della letteratura del baraccone, anzi, il suo anti-manifesto, potremmo dire l’Antiepica italiana.
Cuk afferma la sua estraneità rispetto alla “parola” usata per “dare sicurezza ai troni … ed eternare la […] volgarità mercantile” di Berlusconi. Con il suo linguaggio arzigogolato e gaddiano, esalta la letteratura barbara ed eretica. E in effetti sembra di essere a un processo dell’Inquisizione, dove infine si brucerà Cuk l’eretico, ossia il carrozzone della letteratura fine a se stessa. L’Editor e la folla sono in preda a un orgasmo incendiario, ed è Berlusconi, sempre attento a salvare le apparenze, a chiedere di mantenere un contegno dignitoso.
Cuk, in un certo senso, vorrebbe evitare il rogo per sé e per chi è rappresentato dal carrozzone (“non siamo fatti per il focolare, ma per il tripudio orgiastico”) ovvero Gadda, Frank Zappa, Antonin Artaud – questi i nomi citati, si suppone numi tetelari dell’Autore –, ma non fa nulla per scansare la pena, anzi si prepara “a scrivere la [sua] morte”. Il suo linguaggio è una sorgente infinita di citazioni letterarie, musicali, artistiche di ogni tipo, che Gambùla connette o contrappone con una foga esacerbata e priva di ogni freno inibitorio. Le frasi dell’Uomo di Merda erompono dall’immaginario dell’autore allo stato grezzo, e prendono la forma di una scrittura citazionista gaddiana piena di neologismi. Infine, l’Editor chiede di bruciare il “Mefistofele brutto de via Merulana”.
La folla porta in trionfo la sagoma dei Wu Ming, ristrutturata per l’occasione, e la scena termina con Cuk bruciato “negli acidi della serie aromatica Stile Libero”. Cala il sipario.
Dopo aver dilatato nei precedenti atti il nucleo della farsa in altre direzioni contenutistiche e stilistiche, Gambùla torna prepotentemente all’essenza della sua opera e in una densissima scrittura esprime il suo rito taumaturgico finale.
Questo è un atto di rara potenza scenica, di cui bramerei essere spettatore. Con questo episodio finisce, a tutti gli effetti, la farsa. Gambùla lancia il suo messaggio coniugando in modo assai creativo e godibile le parole con la rappresentazione: lascia al suo alter ego Cuk (e ai suoi artisti di riferimento: Gadda, Artaud, Frank Zappa quelli citati) il ruolo dell’eretico, dell’outsider che viene sconfitto e deriso dalle dinamiche della volgarità del mercato. Rivendica il ruolo di una letteratura dove lo scrittore scrive per se stesso, come atto catartico, e con linguaggio e contenuti pienamente intelligibili solo in senso autoreferenziale. Invoca una scrittura mesmerica, che attraverso suoni e scene, più che significati, porti a una comprensione anti-intellettuale che sfoci nel tripudio orgastico.
L’autore, irridendo la Nuova Epica wuminghiana, forgia il manifesto della sua letteratura epica.
Atto Nono – C’è ancora un mondo altrove?
Al cimitero di Londra, lo spettro di Marx, il Custode e Pasolini, sbronzi, vedono passare il baraccone, che prosegue il suo viaggio “insensato, ma necessario”. Pasolini suggella la farsa dicendo: “Forse hanno ragione loro”.
L’opera si conclude inneggiando al baraccone puzzolente, affascinante e fastidioso, della letteratura contraria a ogni tipo di ammaestramento e consolazione, una letteratura che non si fa ancella della lotta politica contro il capitalismo, il mercato, il regime berlusconiano poiché è fine a se stessa, e vuole evitare la trappola di rappresentare un contropotere complementare e immanente al potere, il quale fagocita ogni elemento che vi si oppone. Una letteratura insensata ma necessaria. Così come è necessario (e insensato?) trasferire la Resistenza al potere dalla letteratura alla vita.
Leggendo questo testo sono rimasto colpito dalla colorata scrittura di Gambùla che, da un lato dà ampia dimostrazione della sua poetica forgiando scene esasperate o deliranti per puro piacere narcisistico, come una liberazione interiore, dall’altro contraddice il manifesto letterario del baraccone poiché è chiaro che questa farsa, pur con il suo linguaggio immaginifico e allucinatorio, non è letteratura fine a se stessa bensì arte con un preciso obiettivo: quello di smerdare la poetica dei Wu Ming. In realtà, dunque, l’autore è riuscito a coniugare il piacere ego-centrato dell’invenzione autoreferenziale (e autobiografica), dell’affabulazione collerica comprensibile solo da se stesso, delle citazioni degli artisti favoriti (e delle divertite autocitazioni) con una letteratura tematica e politica, finalizzata a disegnare un percorso sull’eredità del pensiero marxista, quanto meno in negativo, ossia dimostrando la sua assenza nella Nuova Epica wuminghiana e nello spirito mercantile in cui vive la letteratura odierna, che vede negli editor i suoi nuovi alfieri. Gambùla, intelligentemente, nasconde il suo messaggio dietro a un linguaggio scenico lussureggiante votato al grottesco e alla dissacrazione, suoi registri preferiti, onde evitare di risultare moralistico, ma in definitiva questa opera teatrale brilla per la lingua barocca che la modella e per il forte vigore etico-politico di cui è intrisa.
Lorenzo Galbiati