Nel saggio Una tragedia negata – il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, Edizioni Maestrale (uscito anche online, in versione ridotta, su vibrisselibri di Giulio Mozzi: https://vibrisselibri.wordpress.com/catalogo/una-tragedia-negata/), Demetrio Paolin affronta il tema, di mio grande interesse, relativo alla narrativa italiana sul terrorismo (concentrandosi su quella pubblicata negli anni Novanta-Duemila, ma con alcune eccezioni, nonché inserendo spesso saggi e biografie).
Non posso vantare una grande conoscenza delle opere analizzate nel suo saggio: degli autori presenti in bibliografia ho letto soltanto Pavese, Pasolini, Sciascia, Consolo, Coetzee, le biografie dei due ex brigatisti Morucci e Braghetti, i saggi di Nanni Balestrini e Giorgio Galli; rappresentano pertanto una sorta di scoperta, ai miei occhi, le citazioni (tra gli altri) dei romanzi di Moresco, Villalta, Sartori e Doninelli.
Paolin sostiene una tesi tranchant1: la letteratura italiana sul terrorismo espungerebbe dal suo immaginario, dalla sua riflessione, la tragedia della violenza, delle uccisioni di persone in carne e ossa da parte dei terroristi, i quali non sarebbero semplici soldatini al servizio di una (pretesa) rivoluzione leninista che stenta a decollare, bensì uomini con una storia personale unica, con nome e cognome.2
La violenza viene negata (o elusa, o rimossa) con vari espedienti narrativi descritti in modo esaustivo e convincente nel capitolo settimo, “La strategia di Giocasta”. Paolin contraddice Villalta e La Porta, che sostengono l’uso del grottesco per rappresentare gli anni Settanta, ribadendo che è «la cifra tragica quella che potrebbe riuscire a darci opere di grande impatto letterario».
Il grottesco porta a esasperazioni della realtà che rendono la prosa fumettistica: «Antonio Moresco,» scrive Paolin, «ne Gli esordi, consegna una descrizione volutamente epica degli scontri in piazza, in cui tutto, però, viene trasfigurato attraverso una lente grottesca e espressionistica […]. La scena descritta da Moresco è una sorta di fumetto: snatura la violenza, la fa diventare altro, la estirpa dal reale […] così da poterla eludere.»
Un’altra tecnica con cui gli scrittori attuano «questa strategia di Giocasta» consiste nell’interiorizzazione del senso di colpa: «Interiorizzare la colpa, far diventare l’inferno un locus animae sono gesti che segnalano una scelta anti-tragica, almeno dal punto di vista narrativo.» La colpa diventa un dramma intimo, non oggettivo, da esorcizzare. È il caso di Libera i miei nemici di Rocco Carbone.
Anche quando la violenza viene esibita sotto gli occhi dei personaggi, come ne La quattordicesima commensale di Gianni Marilotti, la tragedia viene estromessa dalla narrazione grazie a una fuga dalla realtà fisica – dai corpi uccisi – che approda nel sogno («La fuga è un altro topos di questa interiorizzazione della colpa»).
Chi non ha paura del corpo ucciso e abbandonato di Aldo Moro, la vittima per eccellenza del terrorismo rosso, è Leonardo Sciascia che, come decreta Paolin nel capitolo sesto, “La tragica ‘elusione’”, «con L’affaire Moro […] scrive una tragedia, l’unica – lucida e profonda – che la letteratura italiana contemporanea contempli. […] Sciascia, che fu fiero avversario di Moro, riesce a comprenderne il valore, perché non lo elude.»3
Uno dei pochi autori che Paolin “salva” dall’accusa di negare la tragedia è Giacomo Sartori4 che, nel suo Anatomia della battaglia, descrive il rapporto tra un giovane terrorista e il padre «fascista mai pentito». Lo scrittore ha il merito di narrare una colpa mai espiata che si tramanda di generazione in generazione: «Sartori», scrive Paolin, «crea un legame tra la mai pacificata storia dell’Italia fascista, e della sua liberazione, e il terrorismo anni Settanta, [senza] nascondere una colpevolezza mai espiata.»
Sartori pubblica il suo romanzo nel 2005 per colmare una lacuna, come afferma l’anno successivo sul blog letterario Nazione Indiana:
«Gli anni di piombo sono solo un esempio – forse uno dei più rivelatori, ma non certo l’unico – di un tema specificatamente italiano che a rigore di logica si presterebbe a essere romanzato, e che invece dal punto di vista letterario non ha prodotto quasi nulla.»
Questa considerazione mi ricorda quanto sosteneva Ferdinando Camon, autore del bel libro Occidente – Il Diritto di strage (sul terrorismo nero), recentemente ristampato da Apogeo (https://www.giornalesentire.it/it/occidente-ferdinando-camon-apogeo); secondo lo scrittore veneto, mancavano opere di valore sul terrorismo perché gli intellettuali non avevano ancora fatto i conti con questa tragica epoca della storia civile e politica italiana.
È la stessa tesi di Paolin: dopo due decenni di eclisse, il tema del terrorismo ha fatto capolino nella letteratura italiana negli anni Novanta, ma negando la tragedia che ha portato con sé. Nel capitolo secondo Paolin si chiede esplicitamente: «”Perché solo ora gli scrittori e le case editrici mandano alle stampe testi che parlano del terrorismo?”» La risposta, secondo l’autore, è di natura storica: la «recrudescenza del fenomeno delle Brigate Rosse» e la diffusione del terrorismo internazionale a partire dall’undici settembre 2001 avrebbero risvegliato le nostre paure e portato gli intellettuali, «con scelta molto manzoniana, [a] guardare il passato.»
Paolin però, come confida al termine del saggio a un imprecisato Andrea che negli anni di piombo «è stato nei movimenti», non se l’è sentita di scrivere un romanzo sul terrorismo: «ho scelto – non so se a torto o a ragione – di non scrivere un romanzo sugli anni Settanta. Finirei per dire delle banalità.»
Mi sento interpellato in prima persona da quanto afferma Demetrio Paolin. Perché ho scritto un voluminoso romanzo, ancora inedito, sugli anni Settanta. O meglio: un romanzo su cosa significa avere una fede ambientato in gran parte negli anni Settanta, con tanto di descrizione dall’interno dei terroristi (o dovrei dire degli “aspiranti rivoluzionari”, per usare le parole di Valerio Morucci?) delle Brigate Rosse e della Rote Armee Fraktion. Leggendo e rileggendo il libro di Paolin, ho cominciato a chiedermi se, in qualche modo, il mio romanzo neghi (o eluda, o rimuova) la tragedia del terrorismo. Non sono nella posizione di poter dare una risposta. So solo che nel lungo lavoro di editing del testo, alcune piccole correzioni sono scaturite dalle suggestioni che mi ha fornito questo piccolo ma prezioso saggio.
NOTE:
1) Secondo Filippo La Porta, autore della Prefazione, Paolin «si mostra assai severo, e direi su un piano più morale che stilistico, con gli autori di cui parla». Per La Porta, «il romanzo più bello sugli anni di piombo» è Tornavamo dal mare di Luca Doninelli.
2) Paolin critica De Luca «quando sostiene che tutti avrebbero potuto uccidere Calabresi. In questo modo si svuota il fatto oggettivo – l’ammazzamento di un uomo, di quell’uomo, ucciso ad una determinata ora, in un momento preciso della giornata – e lo si tramuta in qualcosa che non ha l’evidenza dei fatti, ma che si configura come colpa collettiva […] e quindi priva di ogni tragicità».
3) Scrive Paolin nel capitolo quarto, “Lessici familiari”: «L’autrice napoletana [Anna Maria Ortese] è forse colei che più di tutti, insieme a Sciascia, si è avvicinata [con Alonso e i visionari] al segreto di questa “brutta storia italiana”, segreto che ha a che fare con la rimozione del tragico.»
4) Nell’Appendice I Paolin scrive: «Sartori tenta di scardinare luoghi comuni, cercando di fare entrare in frizione, il terrorismo rosso, il fascismo, il rapporto padri figli.»