di Ivano Mugnaini
Il riferimento all’occhio presente in modo ineludibile nel titolo del libro di Donatella Nardin richiama il bene della vista, il dono prezioso dello sguardo. Ma non si tratta di un puro fenomeno ottico né tantomeno di semplice acquisizione di dati e immagini. Siamo di fronte nel contesto di questo volume a qualcosa di più ampio, un’osservazione che la vista rende possibile senza tuttavia esserne fine né meta. Lo sguardo parte dall’esterno per poi attraversare le ampie pianure del tempo e dell’interiorità. Al termine del tragitto ritorna a contemplare la bellezza della natura, simbolo di una profondità lineare ma complessa, ricca della consapevolezza del discrimine fondamentale, la linea di demarcazione tra ciò che è umano e ciò che esula dall’umanità autentica.
Le liriche di questo libro sono tessere di un mosaico, o meglio ancora fili di vari colori il cui senso complessivo, la forma e la misura, trovano compimento nell’unità, ossia nella ritessitura di segmenti lacerati dal passare del tempo e dalla perdita di senso e sentimento, a livello individuale e collettivo, per i singoli uomini e le singole donne e per il mondo intero. La cura, intesa sia come farmaco che come riscoperta del gesto attento, appassionato e generoso, è nella poesia vera, fattiva, non di maniera o di facciata. La cura è nel ritrovarsi; e ancora una volta il verbo ha duplice valore, riferendosi sia al patrimonio di affetti di un’unica persona che alla totalità degli individui e dei popoli chiamati a riconoscere ciò che è salvifico.
Bisognerebbe donare un’ora
buona al tempo, all’insipienza
un pensiero indulgente
come di violaciocche
splendenti tra le pagine nevose di gennaio.
Si potrebbe tentare di svelare
ciò che tiene insieme gli atomi
e le creature, la mano scesa
dall’alto a deporre un seme
d’infinito nella carnalità.
Ma abbiamo perduto l’occhio
svettante nel giusto e nel vero
quel candore che buca le tempie
cercando ricongiunzione.
Come si evince anche dalla citazione qui sopra riportata, i versi della Nardin possiedono una musicalità innata originata dal gusto della ricerca che tuttavia non cancella la spontaneità. Di notevole valore è la conservazione costante di una “calviniana” leggerezza anche nei punti in cui il dettato assume valenze ampie, quasi allegoriche. In altri termini il senso, quello che in altri tempi si sarebbe definito “il messaggio”, non è mai urlato o imposto con altera retorica. L’autrice parla di sé, con schiettezza e coinvolgimento emotivo profondo, senza perdere la rotta, senza smarrire la lucidità, il rispetto per la parola e per la sua funzione comunicativa, e senza mai dimenticare che anche in poesia, con gli strumenti propri della poesia, si possono narrare le dinamiche della realtà descritta nei suoi eventi e mutamenti. In tal modo il raccontarsi può diventare specchio, tramite l’iride racchiusa nella pupilla e tramite quel verde che, pur con le sue innumerevoli sfumature e tonalità, è abbraccio universale.
Tale suasiva e profonda musicalità ha fatto da trait d’union, ha costituito un punto di connessione tra la lingua in cui le poesie della Nardin sono state concepite e scritte e la lingua in cui sono state tradotte, l’inglese. L’idioma in cui i versi sono confluiti, adattandosi a forme sintattiche e metriche diverse, ha acquisito la coloritura propria della lingua originale, nitida anche nei punti in cui la cupezza del rimpianto e la consapevolezza dell’estraneità rispetto ai modi e ai gesti della società oggi imperante risultano più intense. In tal modo, e in virtù della specificità del dettato poetico, il libro bilingue della Nardin assume ed evidenzia anche sotto l’aspetto squisitamente linguistico una fluida unitarietà.
Ha immaginato così di svanire
tra le piccole acque che, nel loro
bisogno di assoluto, come lei
sanno il tempo e il gorgogliare
segreto di ogni mancanza.
Nella resa accogliere la finitezza
ché il finire possiede
la mite tracotanza dell’acqua
bambina.
Questa lirica dal titolo Il finire è per molti aspetti un efficace e in qualche misura riassuntivo parametro di alcune delle tematiche che questa raccolta propone con coerenza. In primo luogo il tempo, a cui si è già fatto necessariamente cenno. Ma non si tratta del solito carpe diem né di una nostalgia vaga e tutto sommato immotivata. Qui la parabola esistenziale è descritta con equilibrio e sincerità (altra parola chiave, quest’ultima). Sì perché sussiste una proporzionalità credibile, anche sul piano del linguaggio, tra la parte iniziale della lirica in cui la ragazza indossa maglietta e infradito, definiti senza sconti e senza abbellimenti edulcoranti. La scena accade oggi e descrive una ragazza come tante, non un’eroina arcadica sospesa in un tempo indefinito e astratto. La ragazza è specchio di ogni donna, così come la riva del fiume in cui tutto accade è imbronciata anch’essa, quasi ad assumere il sentire umano, come se la natura non fosse solo specchio ma respiro e stato d’animo condiviso. E solo allora, quasi a sorpresa, l’occhio finalmente vede, e coglie un dettaglio rivelato da un aggettivo. I capelli sono imbiancati; la ragazza non è più tale, o meglio, porta dentro di sé la gioventù di un tempo in un corpo maturo. Ma ancora quella donna non più ragazza continua ad attendere il risveglio del mattino. E immagina di svanire tra acque che ancora confermano profonda empatia dimostrando di conoscere il gorgogliare segreto di ogni mancanza.
I quattro versi finali della lirica sono “ossimorici” a più livelli. Innanzitutto sul piano del significato, del gesto, della scelta: la resa accoglie la finitezza del finire. Il verbo accogliere, seppure riferito ad una sconfitta, fa pensare ad un sorriso. Amaro, immensamente agro, certo. Ma è un ospite a cui si apre comunque la porta, con un respiro di sollievo, paradossale ma profondo. Si apre la porta e si prende atto che l’ospite una volta entrato non se ne andrà. Bisognerà conviverci. Parlandogli con schiettezza. Tanto già conosce tutto di noi, è sempre stato presente, c’era già prima della maglietta verde petrolio e delle infradito. Parlando con l’ospite nostro malgrado osserviamo e metabolizziamo l’ossimoro più puro e più distruttivo: la mite tracotanza dell’acqua bambina. Forse la nostalgia di una purezza che non è mai esistita. Quella bambina, comunque, non tornerà. Almeno non nella forma di un candore asettico illuminato da un sole mitico che oggi (e forse anche allora) è il riflesso di un riflesso, proiezione di un’idea. Non è un caso forse, ed è un’ipotesi attraente anche questa, che l’unico rimedio alla tracotanza della nostalgia (mite, in apparenza, e quindi ancora più dolorosa) sia svanire. Ossia sparire al mondo, a quella parte del mondo con cui non c’è interazione possibile, non c’è dialogo che possa condurre a sentire in modo analogo. Svanire dunque, come strada necessaria. Andare in dissolvenza, come in ambito cinematografico. E anche nella vita, come nelle pellicole dei film, il passaggio da una scena all’altra non è taglio netto, non è scissione. È continuità nella differenza. L’acqua bambina non tornerà, è passata, trascorsa in direzione di un mare lontano. Non torna ma resta come eco, come sguardo, nel verde della maglietta, dell’occhio e del prato. Sapere svanire è forse la sola arte realizzabile. Sparire senza smettere di essere presente, come mente, pensiero, voce, parola detta e scritta, e anche come corpo (interessante e condivisibile a questo proposito il riferimento alla “carnalità” come asse portante del libro a cui fa cenno Riccardo Deiana nella postfazione).
Lo sguardo, l’occhio della Nardin, è attento e acuto, proprio perché mai disgiunto dalla mente e dal cuore. Rileva e metabolizza, senza tralasciare niente, senza sconti e senza infingimenti, il buio, la luce e i chiaroscuri. Coglie e annota, seguendo il filo rosso delle varie sezioni del libro, Le vite care, Le creature murate, Il fuori, Il dentro e The next world, Il mondo che verrà. Descrive una a fianco all’altro la luce e il buio. Ritrae tramite versi fermi, vigilati, non inclini alla retorica né al compiacimento, le violenze, le ferite, la bellezza violata, la perdita della purezza e dell’illusione.
Nella lirica Amori negati introduce i suoi versi tramite una citazione da un biglietto di Cesare Pavese a Fernanda Pivano: «La fioraia mi ha detto: le farò fare proprio bella figura. Io non voglio». La fa seguire da un composizione che contiene anch’essa in nuce i temi chiave di questa raccolta e della poetica della Nardin: il tempo, la speranza, tradita, “mangiata”, divorata dalla realtà; l’invocazione, l’anelito alla rinascita, l’impossibilità di sperare ulteriormente, il nulla come inesorabile sipario:
Come impetuosi torrenti di sole
rinascere ogni giorno in segreto
alla vita, a pelle nuda rinascere
diade alla preghiera innalzata
– trepida l’invocazione
nella sua dedizione –
se non fosse che in punta di piedi
si è mangiata l’armoniosa
pulsione il timido fiore,
se non fosse che anche il domani
finisce e, finendo, non rifiorisce
con tutto ciò che dovrebbe
fino alla fine accudire
e che invece dispera e nulla più.
Non è dominata esclusivamente dal gusto della commiserazione la poesia di questo libro, comunque, non è “opera al nero”. Contiene una gamma ampia di colori, a partire dal verde del titolo. Descrive la vita nelle sue sfumature cangianti come i chiarori e le ombre, i raggi accecanti e i riflessi più tenui. La Nardin è poetessa di chiaroscuri, osserva il mondo senza trascurare nessuna delle sue forme e manifestazioni. Dopo l’assimilazione visiva subentra sempre, come detto, la riflessione, il ragionare, mai scevro di sentimento ma allo stesso tempo rigoroso e obiettivo. I colori vengono corrosi dal tempo, che divora, assieme a loro, la lucentezza delle speranze che anni prima sembravano potere splendere in modo imperituro. Alla poesia non resta che ritrarre l’enigma, il mutare inesorabile degli orizzonti. Alla poesia resta il compito di ipotizzare risposte a domande impossibili. O ad enigmi che possiedono infinite soluzioni, una per ogni destino individuale, oppure non possiedono alcuna chiave risolutiva, se non la consapevolezza della finitezza.
Splendori e congedi di ali
troppo grandi per questo
piccolissimo cielo.
Ha raccolto per l’ultima volta
le pesche gialle, succose dagli
alberi piantati quarant’anni / prima.
E ora come faremo – si sono
chiesti i rimasti, sfiniti
dal nulla – come faremo
a respirare, intensa e lieve
la sua luce terrena per mutarla
infine in dolce memoria?
Bisognerebbe forse ingoiare
una viola per ridare vivacità
all’insieme discorde,
come un nuovo nome, magia
che non tiene ma che celebra
la sottrazione.
Per tutti i lettori alla deriva nel flusso spietato, per tutti i “rimasti, sfiniti dal nulla” di questo nostro tempo impalpabile e feroce, la poesia della Nardin è un modo per riflettere sul senso e sulla funzione di quella viola che racchiude in sé l’armonia perfino del distacco, della nostalgia, della variazione sul tema della caducità di ogni cosa. Quella viola misteriosa e lucente che dovremmo ingoiare si chiama poesia.
Donatella Nardin, L’occhio verde dei prati, Rimini, Fara editore, 2023, pp. 144, € 13,00
Poesie di Donatella Nardin
per la rivista Carteggi Letterari
POESIE VELATE
Agli invisibili tutti nel pianto ubiquo
dimenticati.
Ai lasciati in disparte nel disadorno
feroce assiepati.
Alla tua ombra dismessa, alla tua luce
mai nata e generoso
all’amore che terso il poco nel tutto
a volte risana.
1.
Ombre e respiri
“Un essere umano è solo ombra
e respiro.” Sofocle
I
Dal poco colsero un battito
– e unghie laccate di rosso
e lunghi capelli di luce –
per farne dono alla madre
degli increati tutti
dei poveri dei diseredati
seduti fuori dal tempo
assisi sui troni dorati del vento
in forma di grumo scuro
– tra gli alberi rosa d’attrito –
erano respiri di ombre lontane
che in un ardente fiammare
avrebbero desiderato
appalesarsi nella parola.
II
Giacciono qui i tanti noi
che hanno conosciuto
il penare.
Fratelli nel sangue
quelli che hanno dormito
in tre in un unico letto
fratello nel buio il per mare
disperso nel mondo sordo
– a pioggia sotto le stelle –
le tante bocche costrette
al silenzio le spose bambine
o chi si è saziato
in guerra solo di nuvole
e bianche molliche di vento
creature come non mai
d’inaudita dolcezza
per chissà quale demerito
nell’oscurità ricacciate.
III
Quanto dolore dovrà
attraversare il pianto
per essere vita?
Quanti uccelli di bellezza
inzuppati dovranno al suolo
cadere senza riuscire
a darsi all’aria
e a proclamarsi?
Trema la luce dispersa
tra rughe giallastre
e patimenti.
Sarà turgore per mare
per terra il darsi a colori
all’incolore?
IV
Smisero allora di cantare
gli uccelli e tutto fu libero
di essere altro
– anche il vento anche
il vento deposto ai piedi
del tempo –
anche l’estate che più
non era in nessuno
di noi.
V
Sobbalza l’azzurro di pietra
in pietra come l’aurora
posata sul rosso impetuoso
delle foglie.
Ha spezzato il tempo
in un prima e in un dopo
il non accaduto
raffredda i polsi affranti
più dolce del suo ieri
inconsolato il domani.
VI
Troveremo luoghi più retti
in cui stare vicini
nel mite interrogarsi
afferreremo i morti alla gola
chiedendo a gran voce
una vita più giusta più vera
– e fremiti nuovi alle vene
sottili –
papaveri gialli ridenti
su cui possa indugiare
una tenera scrittura di cieli
arancionube felice uno sguardo
vibrante nell’epica dimessa
della quotidianità.
VII
Ci governa un algoritmo
ferino di caos incessante
ammantato perché dire vita
è appalesarsi accorciati
levigando destini
intrecciati all’erba alle acque
alle pietre come
storie incandescenti smarrite
– a spillo sottile invissute –
S’innamora del volo radente
la luce tanto più fulgido
l’occhio nel pronunciare
le aperte ferite che tengono
insieme un debito occulto
e patti da nessuno mai
sottoscritti.
VIII
Potessi della mia piccola pace
t’impollinerei madre
e invece intramontata stella
dormo cullata da lune
ultraterrene
-consolati madre non prova
dolore il nulla-
e intanto nel sonno veglio
l’idea di ritornare a nuotare
in un’intenzione profonda
da cui non tracimi
la dissoluzione né questo
tuo fulgido sogno
miseramente infranto.