di Giulia Sonnante
Con Il bene profondissimo (2024) torna la Poesia di Antonella Vairano come da luogo altro, il luogo del destino che Ella non può negarsi e negare. E torna bilanciando pesi e misure, ideali e comportamenti sovrapponendo il valore del dover essere all’essere.
Questo “dover esser” si spinge verso luoghi, non inaccessibili, di integrità morale che non ammette compromessi o falsità, luoghi di fulgida bellezza, claudicante, sì, ma autentica, una bellezza che cammina con le proprie imperfezioni e, per questo, perfettamente: La bellezza mi fa male / come un altare di rose / claudicante. (Bellezza).
Così nella lungimirante visione di Oro magnetico, scrive: spingerò in avanti il Cuore / pronto e affilato / in una selva di colori / nella rotondità della pietra. Ma la luce che filtra da questo metallo sottile somiglia, suggerisce Lei, a un’ambizione infedele perché velata da dubbi che sfumano i contorni della malinconia; allude, la poeta, a qualcosa che è andato perduto, a un bene, forse, dissipato nel tempo: E mi domando dov’è finita / la distanza delle stelle? / Ma, ancor di più, dove / sono finite / le stelle?
La promessa di Oro magnetico si riscopre, intatta, anche nella bellissima Manca poco per l’alba, compresa in Il mondo s’è fatto male (2019) della stessa autrice: Avremo giorni perfetti / di mangiatori di fuoco / senza fame / di elefanti ubbidienti / senza circo.
Un filo rosso attraversa, dunque, le poesie delle due raccolte che, tuttavia, mostrano, nel titolo, segno contrario, come opposti universi, ossimori. Ma si tratta, di certo, d’un gioco di apparenze, di specchi, quasi un escamotage per rivelare ciò che è in profondità, o meglio, ciò che dovrebbe essere: il bene.
In I dannati, che apre la nuova silloge, scrive: Si rompono con passi malmessi / in spigoli di fuoco e ancora: Sono corpi d’acqua / e maestri d’apparenze. Ecco, Ella non disdegna le apparenze, anzi, le possiede appieno per mostrare l’altra faccia della medaglia: L’ho messa nella mano degli altri / e quella stessa mano / di perdizione e scostamento / mi preparava cristalli affilatissimi / sotto i piedi. / Ci ho messo un attimo a farmi male. (Un attimo). Così anche in Becco ricurvo, quasi a puntellare una scena teatrale, s’avvistano uccelli dagli occhi gialli e fissi che non presagiscono nulla di buono.
Traversando vizi e tentazioni, dice del bene, la Vairano, in una poesia del limite, orizzontale: Donne sconosciute alla gente / Io sono il limite dei miei / piedi bianchi (Quel che resta). Mostra il candore della pelle, la poeta, non certo per farsene un vanto, ma per indicare quanto possa essere cristallina un’anima. Si distacca dall’oscura massa quando afferma: “E voi siete il limite di questo mondo” ponendosi a guardia del bene.
Così in Il bene profondissimo rivela: Contai sette volte (…) Saltellando con le dita / Fino a quando non gli entrai / di traverso / mangiando la costola / più lontana dal cuore. (Capitano) e ancora: Sono la collisione con l’umano / e il fuoco che non può essere sotteso. / Prima di me. (Ciliegio antico) in perfetta continuità con La figura di Il mondo s’è fatto male: “Sarò il controcanto della tua costola bassa / svuotandola dal male”.
Avverto spesso un senso di rabbia nei versi della Vairano, ma è probabile che confonda la Sua passionalità con la rabbia; scocca frecce acuminate, la poeta, e tuona il canto nel dire la Verità: punta di freccia, / tuono nel canto / e forza nel peccato! (Il cielo dell’Alba)
Si sofferma sulla figura del poeta, l’autrice: Amo la grandezza dei Poeti / solo se è stata miseria. (I Poeti) E quella “miseria” cui Ella allude, altro non è che umiltà; così ancora afferma: La divina potenza / è la sacra miseria della semplicità. (Selene), una semplicità che sfiora l’inutilità. Ancora in I dannati, scrive: Questi / sono figli senza madre. Guaino dell’inutile. Ed ecco che tornano alla memoria i bei versi di Babilonia in Il mondo s’è fatto male: Il poeta non può / fare niente! Il peggiore peccato / rimasto / è un sacerdote fermo con una preghiera in mano. Forte è, per la Vairano, la responsabilità dell’Essere Poeta per cui si sente, forse, inadeguata quando ammette d’aver braccia corte per tutto il bene che intende recare: Mentre stringo di bene / queste braccia corte / che non sanno fare, in quest’agile tormento, che raccontar la pena. (Becco ricurvo).
Ed è stato grande lo stupore nello scoprir dannati, i poeti; mi sono anche chiesta in quale girone dantesco, Ella volesse collocarli e quale fosse il contrappasso giusto per loro; poi ho immaginato avesse in mente i versi dell’amato Verlaine: Vinti ma non domati, esiliati ma vivi, / e malgrado gli editti dell’Uomo e le sue minacce, / non hanno certo abdicato, serrate le mani tenaci /su tronconi di scettro, e corrono nei venti. (Gli dèi)
Angelo in esilio ed anche un po’ Minosse, la Vairano. Ed accostarla al Minosse dantesco che giudica e manda secondo ch’avvinghia, è una follia, lo ammetto, ma, in qualche modo, proponibile se si pensa che il poeta osserva la realtà e quella, poi, giudica. E neppure si trascuri che il secondo cerchio ospita gli amanti più cari e passionali della storia della Poesia: noi che tignemmo il mondo di sanguigno (Inf. V, 90).
Per Lei, i poeti sono creature esposte, scorticate a vivo: E vivo per presentire / chi sarà il prossimo a punire questo salto esposto (Salto esposto) ed “esser esposti” significa, sì, vivere senza maschere o pregiudizi, ma anche dimostrarsi sensibili, compassionevoli: L’essere umano è un barbaro incallito / ed io vado a benedirmi, / perché manca compassione e misericordia. (Delirio). E questi “barbari incalliti” mi riconducono, ancora una volta, a Dante che, per bocca di colui che intraprese il viaggio “di retro al sol”, tuona: Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza. (Inf. XXVI v. 119)
Ugualmente, non posso non pensare alla Cvetaeva che scrive: Io sono una creatura / scorticata a nudo, (…) Tutto cade come pelle, / e sotto la pelle / carne viva, o fuoco. Proprio all’amata poeta russa, la Vairano dedica una lirica che getta potentissima luce sulla solitudine dei poeti, quella di chi ha il coraggio delle proprie azioni, di chi non indossa alcuna corazza ed è, appunto, esposto: Il coraggio della fragilità / è solitudine per la poesia (A Cvetaeva) e ancora: queste necessarie vulnerabilità / che tutte le parole balbettano / Naufragano gloriose / sotto questo pezzo di ferro (L’Universo).
Si sente vulnerabile, la poeta, con la propria sensibilità, esposta ad ogni vento e, tra le dita, gira le chiavi sempre due volte per accordarsi alla fatalità dell’Universo come se fosse una prigione, per lei, quell’universo: We think of the key, each in his prison / Thinking of the key, each confirms a prison, scrive Eliot nella parte finale della “Terra desolata” lasciando parlare il tuono.
Una condizione di emarginazione si distingue, invece, in Sarò poeta sino in fondo in cui l’accenno alle streghe di Salem, non solo riconduce all’elemento magico, proprio della Poesia, ma apre alla solitudine. Così, la “A” di Adultera che Hester Prynne, nel romanzo di Hawthorne, ricuce sul petto nel bel panno scarlatto, bardato di ricami bizzarri e rabeschi dorati, diviene, per la nostra poeta, la “A” di Amore.
E tra le tante poesie d’amore, scelgo Lettera di G. Stein, struggente lirica che sfiorerò con dita leggere come si fa coi neonati e, lenta, poi, scriverò, come “lento” scorre il sangue dei Poeti. (I Poeti)
Un soffio d’inchiostro, questa lirica, che sembra esser scritta da Geltrude Stein per l’amata Alice Toklas; qui l’anima è sporta in un unico sussurro: Amore, amor mio, dimmi di grazia amor mio, / dimmi…con tutta l’anima visibile / con tutta la vita / Cos’è un bacio prima / che muoia? Ma dice anche di scrittura poetica, l’autrice, quando suggerisce che si scrive un segreto, qualcosa di ineffabile, e che in tutti i canti dei poeti “c’è un fratello e una sorella minore / divisi come un’ultima devozione / come un’immagine votiva sul muro” poiché il poeta scrive sempre per qualcuno, qualcuno a cui indirizzare una lettera, appunto.
Danza, tra i versi, la Vairano, un piede dentro, l’altro fuori; un braccio teso, l’altro al fianco conoscendo bene specchio e sbarra. Il corpo della Sua scrittura non riesce a quietarsi, instancabile si muove con sicurezza e precisione: tacco / punta, schiena dritta.
Una Poesia che segna il limite, direi di educazione all’Umano; e quando scrive: Non ti ho mai lasciato per sempre / io che non conosco poesia concreta. / Per te, non ho mai scritto una sola riga nera (Vessillo) è perché alta è la sua fronte, alto, il suo Ideale.