di Ivano Mugnaini
“Tu guardi la felce e guardi i suoi ramoscelli / e i rami dei suoi ramoscelli: / hanno tutti lo stesso disegno. / Le foglie sui rami / disposte precise: / ogni specie secondo una regola / e tutte rispondono a leggi. / Tu pensi che sia geometria, invece / è tanta poesia”. Questi versi ci offrono forse alcuni indizi, o meglio indicazioni e suggerimenti per interpretare sia il titolo del libro che il senso, inteso come significato ma anche come direzione, strada, percorso.
Niente è casuale, ci dice Agostina Spagnuolo, tutto ha una funzione, una misura, uno scopo, un inizio e una fine. Nella visione dell’autrice tutto ciò, ben lungi da essere schema ripetitivo schiavo di canoni, è vera libertà, anzi, è volo fertile e creativo, come la poesia, anzi, è la poesia.
“È lo stesso codice, amore mio, quello / che regge le dinamiche della vita”, esordisce così la lirica in cui ci viene rivelato che dietro il velo di numeri, figure e angoli geometrici è nascosto, pronto ad essere scoperto e vissuto, il mondo interiore. La ricchezza dell’immaginazione possiede significato e sapore in virtù del suo muoversi all’interno di una struttura precisa e primigenia che tutto comprende e tutto avvolge senza comprimerlo e senza soffocarlo.
Il libro della Spagnuolo si nutre di ossimori, di accostamenti, di contatti tra entità e concetti in apparenza distanti che tuttavia invece di respingersi si attraggono, trovano le coordinate giuste, le opportune quadrature per tramutare il conflitto in armonia e compenetrazione. È questo forse uno dei cardini di questo libro e più in generale della poetica della poetessa: partire dalla concretezza, dalla solidità delle cose, dal suolo, per poi arrivare ad afferrare ciò che conduce oltre, all’astrazione, al lavorio della mente che riflette non per produrre un ragionamento fine a se stesso ma per progettare mutamenti per il singolo individuo e per l’umanità.
“M’inginocchio e prego / salmi a piedi nudi”, scrive la Spagnuolo, ed è, anche visivamente, una sintesi in una certa misura emblematica della sua fede profonda ma, come dire, ad occhi aperti e senza perdere il contatto con il terreno, con l’argilla che, in fondo, è fatta della stessa materia dell’uomo.
In un’altra lirica, l’autrice osserva: “La geografia dei pensieri / percorre latitudini rimaste inesplorate. / Abissi erano parsi azzurri voli, / cangiante il vero. / Dissipammo nuvole grevi nel limbo / in lontananza”. Ci vengono fornite, qui, altre tessere di un variegato mosaico. Spicca innanzitutto il verso “La geografia dei pensieri” in cui fa la sua apparizione un “alter ego” del titolo, con una variazione sul tema di rilievo, ineludibile. La geometria evocata nel titolo, diventa, all’interno, in una delle sezioni in cui è articolato il volume, “geografia”.
Potremmo tentare di decrittare il messaggio riflettendo sul fatto che prima del calcolo ragionato sussiste ed è necessario il tragitto, l’osservazione attenta del mutare dei tempi (intesi sia come epoche che come condizioni degli elementi, acqua, aria, vento e tutto ciò di cui è fatto l’universo, e, ancora una volta, tutto ciò di cui siamo fatti anche noi).
Il cammino è uno degli elementi ricorrenti del libro. Lo spostamento da un luogo ad un altro è costantemente unito alla riflessione sul cambiamento, alla percezione degli abissi che erano parsi azzurri voli e del vero, definito con un inesorabile aggettivo, “cangiante”. Percorrere le vie del mondo, sia quelle affollate e caotiche che quelle buie e solitarie, attraversare gli anni come si attraversa a piedi nudi un campo sapendo di poter trovare ad ogni passo un bellissimo fiore o un serpente velenoso in agguato, questo fa la Spagnuolo in questo libro, descrivendo con uguale accuratezza e partecipazione emotiva il bene e il male, i cieli sereni e le nuvole grevi. “Sfiora il cielo / lo spirito dell’uomo. / Sfida la parete piatta / oltre il nido dell’aquila / Una presa dopo l’altra / il nerbo nelle mani / roccia sopra roccia / la pazienza della formica / contro il vento”.
Le poesie di questo libro sono dirette e salde, affondano le radici in un mondo in cui prima si erigono case e ripari per il fieno e dopo, soltanto dopo, ci si ferma a guardare il panorama dalla collina; prima si creano solchi e dimore sicure per i semi e in seguito, solamente in seguito, si osserva la bellezza di un fiore con cui gioca un alito caldo di vento. Fuor di metafora, la poesia della Spagnuolo non fa sconti, neppure al fascino di una rima vestita a festa, neppure al gusto di una tristezza dolciastra o ad un’ammiccante malinconia. Preferisce, per scelta e per istinto, anche nelle liriche più elaborate esteticamente, la solidità della parola con una funzione.
Potremmo dire che non ama le liriche che stanno “con le mani in mano” a rimirare qualcosa. Ha bisogno che la sua poesia parli mentre lavora. Ossia che operi, pur conscia della difficoltà dell’impresa, per mettere a posto le cose, cominciando magari da se stessa, dal quel “domani mi rifarò la testa”, verso possente, contenuto nella poesia “Mangiafuoco”, ma che anche qui trova una sua collocazione e significazione ulteriore.
Arriva in un luogo, la poesia di questo libro, si guarda attorno, vede come sono messe le cose, pone a confronto come sono ora e come erano un tempo, si rimbocca le maniche e cerca di rimediare il rimediabile, aggiustare ciò che si può e pensare a “fare” cose nuove per un oggi e un domani che appaiono quanto mai fragili, certo, ma sono pur sempre gli unici posti e gli unici tempi che abbiamo. In questa accezione e in questo contesto la poesia ritrova la sua innata connessione con il poiein, il creare, nel senso di fare, produrre.
Si dice che l’uomo prima di parlare abbia cantato, che prima di scriver prosa abbia fatto poesia, ed è utile anche ripensare qui ed ora alla poesia In finsteren Zeiten (In tempi oscuri), in cui Bertolt Brecht scrive: «Tuttavia non si dirà: i tempi erano oscuri / ma: perché i loro poeti hanno taciuto?». Ebbene, la Spagnuolo non tace; non resta muta né astrattamente distante dal lavoro della “rigenerazione” di ciò che è spento e appassito o della “ristrutturazione” delle macerie, degli abissi, delle fratture del materiale di cui è fatto l’uomo e il tempo in cui vive. “Stanno / in attesa della neve / soffice, calma, silenziosa / e serbano nel tempo / la storia / della gente senza storia. / Allora, raccogli le storie, / sciogli i lacci alla memoria, / perché nulla dovrà cadere / nel baratro della dimenticanza, / perché ogni sacrificio / non sia stato vano”.
È opportuno ribadire che la Spagnuolo non si atteggia, non si riveste del ruolo di taumaturga in grado di realizzare prodigi e soprattutto non si chiama fuori, non esclude se stessa dal novero dei sommersi dal crollo e dal buio dei tempi: “Troppe cose ho da farmi perdonare. / Ho comprato un pennino / al mercato dell’usato, / l’inchiostro blu / e la carta che lo assorbe / anche se da noi si usava / la cenere del nostro focolare”. Si imputa il tradimento delle radici per un mercato agevole che assorbe, dissolve e uniforma. Ma la consapevolezza è già riscatto, è già redenzione; e le liriche di questo libro sono la prova, sincera, di appartenenza, anche emotiva, ad un mondo in cui il pensiero corrisponde alla cosa, all’oggetto, al sentire reale e tangibile.
Vera, genuina, è anche la volontà di condivisione, anche del dolore, la partecipazione alla pena altrui, con riferimenti alle stragi della Siria, di Cutro e di Gaza, alla guerra e all’ingiustizia viste come morte universale, e ad un rifiorire che può avere luogo solo nella coscienza di essere tutti appartenenti ad un’unica infanzia, un unico luogo e un unico tempo: “Quale primavera rifiorirà / adesso? / Quali germogli / si apriranno, / occhi lucenti, / sui colli a farsi meraviglia del mare, ad aprire / aquiloni, nel soffio / del vento tra erba verde? / Correre e rincorrersi / nel vociare dei giochi / della bella età, era il senso / dei piedi scalzi / nella sabbia. / Sono immobili, adesso, / legati in un lenzuolo / bianco”.
Il libro è diviso in “Parti”, sezioni precedute da citazioni scelte con cura, ad introdurre le tematiche che maggiormente stanno a cuore all’autrice, il tempo, la memoria, l’appartenenza, la giustizia sociale, la pace, l’amore. Un caleidoscopio in cui è contenuto tutto ciò che davvero fa la differenza tra vivere realmente ed essere ombre che ancora respirano ma hanno perso il legame profondo con la Terra, con la bellezza e con loro stesse. Ogni sezione tuttavia, pur essendo unica ed individuabile, contiene l’insieme delle tematiche a cui si è fatto riferimento.
Soprattutto, a confermare una partecipazione emotiva autentica e non di maniera, la Spagnuolo vive dentro di sé l’alternarsi di luci e ombre a cui fa riferimento nelle sue liriche. Il pessimismo di partenza, legato ad un’osservazione attenta delle vicende del mondo, non permane, non ha l’ultima parola. Questo non avviene sull’onda di soluzioni semplicistiche, apprezzabili esteticamente ma prive di pathos. Si verifica, al contrario, al termine di un percorso che l’autrice vive interiormente come tragitto faticoso ma rigenerante, una rinascita a cui il lettore viene invitato e condotto passo dopo passo.
Si parte dalle rocce di isole che sembrano prive di vegetazione e di vie di fuga, senza sbocchi e porti da cui salpare: “Vorremmo essere quel che non riusciamo, / sospesi così nel vuoto del nostro abisso / di coscienza. È la miseria, la mancanza / di sufficiente amore, che ci danna. / Perdiamo l’utopia del coraggio, / codificati da una assurda ambiguità, / birilli in bilico sull’ignoto. Così trafiggiamo / le ombre dei giorni sospesi nel limbo. / Arresi, sospiriamo inceppati discorsi.” In questa condizione neppure la parola sembra possibile, la comunicazione è negata, sostituita dal codice muto e sconfitto dei sospiri. Sussiste però la geometria dei pensieri evocata nel titolo del libro. I teoremi che la compongono diventano efficaci, trovano angoli adeguati e soluzioni, solo nell’attimo in cui alla mente si unisce il cuore, quel coraggio di cambiare che, anche etimologicamente, è legato al cuore, al sentire, a percepire qualcosa che va al di là delle rocce degli egoismi e della sabbia sterile delle solitudini in cui i tempi che viviamo vogliono recluderci.
Il valore del libro di Agostina Spagnuolo sta nell’aver saputo comunicare la fatica, sensata, necessaria e salvifica, che unisce la ragione al sentimento. Quella stessa fatica della presa di coscienza del nostro essere umani è racchiusa in ogni lirica della raccolta. Solo nel momento in cui recuperiamo il legno antico e saldo del nostro essere, possiamo costruire una zattera in grado di condurci altrove, in un luogo altro, lontano dalle rocce di un’Itaca che ormai non è più vivibile, allo stato delle cose.
Sull’onda di tale consapevolezza possiamo dirigerci verso un orizzonte diverso, in cui trovare terra adatta alle radici che abbiamo nel nostro profondo. In quel frangente, il pessimismo viene lasciato alle spalle. Non viene dimenticato, resta come monito. Ma si può sbarcare in una terra nuova in cui “vedi sbocciare la primavera / nel corimbo del viburno / che rifiorisce aggrappato alla siepe / tra il lauro e il biancospino / e si rimira al sole nel suo biancore / fresco di nuove attese”.